Regia: Alejandro Gonzalez Iñárritu
Interpreti: Sean Penn, Benicio Del Toro, Naomi Watts, Charlotte Gainsbourg
Danny Huston, Carly Nahon, Nick Nichols, Claire Pakis, John Rubinstein Eddie Marsan, Carlo Alban, Wayne E. Beech Jr.
Soggetto: Guillermo Arriaga Sceneggiatura: Guillermo Arriaga
Fotografia: Rodrigo Prieto Scenografia: Brigitte Broch
Musiche: Gustavo Santaolalla Montaggio: Stephen Mirrione
Produzione: 2.1 Films, This Is That Productions
Paese: USA Anno: 2003 Durata: 120’ Distribuzione: Bim

Recensione n.1

Voto 1,5 stelle su 4 (max)
Melò opera prima made in USA del regista messicano. Bravi Penn e Watts, ma la storia, seppur formalmente ben costruita, scivola a tratti nel ridicolo (“Sa che lei è incinta? e poi, mi raccomando, stia attenta alle sostanze illegali”, dice una dottoressa a Naomi Watts).
Noioso e sopravvalutato. Peccato.

La Redazione

Recensione n.2

21 grammi è il peso che perde il corpo umano al momento della morte. Ma quante vite viviamo? Quante volte moriamo? Cosa si perde e cosa si guadagna? Sono queste le domande che si pone il regista Alejandro Gonzalez Iñárritu nel suo ultimo film “21 grammi”, presentato all’ultimo Festival di Venezia. Quante vite viviamo. Si perché il plot narrativo consta di tre storie che si intrecciano, ma il riferimento è a ciascuna vita. Quante vite viviamo, se siamo felicemente sposati, con due bellissime bambine, un marito che ci ama, e poi improvvisamente un tragico incidente ci porta via tutto? Quale altra vita viviamo
dopo? Quante volte moriamo se siamo malati terminali, stiamo aspettando un trapianto di cuore, improvvisamente si trova un donatore, ricominciamo a vivere, ma poi il cuore nuovo non regge? Quante volte moriamo? Quante vite viviamo se siamo ex-galeotti, ci redimiamo esagerando anche con il fervore religioso, ma improvvisamente e fatalmente provochiamo la morte di tre persone con un incidente stradale? Quale vita riusciamo a vivere dopo, come si fa a convivere con il rimorso? Queste sono le tre situazioni che si intrecciano tragicamente: il cuore nuovo di Paul (Sean Penn) è quello del marito di Christina (Naomi Watts) morto (insieme alle due bambine) nel tragico incidente stradale causato da Jack (Benicio Del Toro).
La chiave del film è tutta alla fine, quando Paul sul letto di morte si pone tutte queste domande. 21 grammi è un peso specifico che fa solo da spunto ad una riflessione più generale. Cosa si perde e cosa si guadagna? Non è un caso che il corollario del titolo sia il “peso dell’anima”: quale peso deve sopportare l’animo umano. Tutto si spiega nel finale, quando sulla voce narrante di Paul appaiono in sequenza veloce le immagini che mostrano l’epilogo delle tre vite. Alla vendetta si sostituisce il perdono, al dolore la redenzione. Jack torna a casa da sua moglie e finalmente riesce a guardare negli occhi i suoi bambini, Christina ha il coraggio di entrare nella cameretta delle sue bambine, si siede sul letto e sorride, accarezzandosi il pancione che le darà un figlio da Paul. Cosa si guadagna?
Il film si pone tra il melò e l’esistenzialismo, con una alta dose di spiritualità, che tante volte eccede nella redenzione, valore molto caro al regista, ben caratterizzato in tutte e tre le vite dei personaggi: a parte la evidente redenzione di Jack (reiterata), anche Paul si redime dalla vendetta di uccidere Jack, sparandosi un colpo al cuore, e anche Cristina in un certo senso accogliendo il perdono di Jack e accettando la sua nuova vita. Redenzione e melodramma i temi principali del film che appaiono ancora più forti per un’abile scelta tecnica: il regista gioca con maestria con i vari piani temporali, adottando un montaggio parallelo delle tre ambientazioni. Sicuramente spiazzante per lo spettatore, che viene disorientato a livello narrativo e allo stesso tempo investito di immagini forti, che essendo concatenate insieme grazie ai salti temporali, provocano un effettivo bombardamento di sequenze di sangue, di violenza e di dolore. Questa intrusione visiva è resa ancora più forte dall’uso della cinepresa a spalla che amplifica il nervosismo e le emozioni degli attori. Grande merito per l’uso del montaggio quindi, piccole parti tagliate durante il film (che rendono incomprensibile la sequenza), vengono riproposte tutte concatenate alla fine, anche se di sequenze diverse. E lo spettatore immediatamente ricostruisce. Geniale intuizione tecnica a cui va aggiunta anche una grande fotografia. Per il resto, il film appare un po’ sfuggente a livello narrativo, galleggia nelle sue scene melodrammatiche e nella sua (pur temporanea) incomprensione, senza dare una reale risposta chiara: ma qual è l’entità del peso dell’animo umano?

Marta Fresolone

Recensione n.3

21 grammi. E’ tutta qui la differenza tra la vita e la morte?
Quante vite, quante possibilità abbiamo a disposizione? E cosa significa morire?
E’ un cinema fatto di domande, quello del regista messicano Inarritu. Punti interrogativi che si condensano e galleggiano sulla pellicola. Fino ai titoli di coda, e oltre, dentro di noi. Storie intrecciate dal Caso, o dal Destino, chissà. Storie di solitudine e disperato amore, storie di morte e di speranza.
Al centro di tutto, ancora una volta, un incidente stradale. Un solo istante che cambia l’esistenza di tante persone. Basta poco, per far scivolare una vita nell’abisso del dolore. Un niente.
La morte è sempre lì, in agguato. Può nascondersi dietro ogni curva. E ci aspetta, crudele.
Ma la vita non si arrende mai facilmente, e lotta a denti stretti.
Così, una persona può tornare a vivere grazie al cuore di qualcuno che, all’improvviso, è volato via, verso il cielo, accompagnato da due angeli biondi. E’ la storia di Paul, e del suo trapianto. Un cuore nuovo vuol dire una nuova vita?
E poi c’è Christina. Nuota e cammina, ma la sua vita si è fermata, impotente di fronte alla morte che le ha strappato, in un solo istante, tutta la felicità e l’amore del mondo. Come si può accettare un destino simile?
E chi è davvero Jack? Una volta non credeva in niente, ora crede con tutte le sue forze solo in Dio. Ma il suo Dio lo tradisce e lo castiga, gli dilania l’anima con i sensi di colpa per una curva presa troppo veloce. Così cerca di scappare, da tutto e da tutti. Per ritrovare se stesso. Riuscirà a salvarsi dalle infernali fiamme che gli bruciano dentro?
Domande e storie che si intrecciano, si aggrovigliano, fuggono avanti e indietro nel tempo.
E’ questo lo stile di Inarritu, che anche per il suo secondo film sceglie un montaggio straniante, spezzettato, disarmante: i frammenti delle tre vicende sono cuciti assieme senza una logica apparente, senza nessuna cronologia. Il finale all’inizio, storie che tornano indietro e che di nuovo fuggono in avanti, in un continuo gioco di incastri. E ogni tessera del puzzle è un tassello fondamentale per capire l’intreccio dei destini.
Quale idea di cinema sta alla radice dei film di Inarritu? E’ il montaggio il principale tratto distintivo del giovane regista messicano. Il tempo è un concetto da manipolare, un meccanismo da smontare e ricostruire, un gioco di delicati equilibri per tenere alta la tensione, per intrappolare lo spettatore nel fascino della narrazione.
E il gioco, in 21 Grammi, gli riesce alla perfezione.
Il film, infatti, è formalmente perfetto. Raccontata con un semplice e ordinato montaggio parallelo, la storia forse non avrebbe avuto la stessa forza. E che dire degli attori? Tutti molto intensi e convincenti nei rispettivi ruoli, da Naomi Watts a Sean Penn, da Benicio Del Toro alle semplici comparse. La macchina da presa scava dentro i personaggi e cerca di penetrare, attraverso occhi, espressioni e movimenti, dentro la loro anima, in quel groviglio di pensieri e speranze, di dolori e di sorrisi, di paure e rimpianti. Le inquadrature sono sporche, traballanti, spesso girate con la camera a mano, per stare proprio addosso ai personaggi, appiccicati ai loro corpi, per essere tra di loro, e coglierli negli istanti in cui le loro storie si compiono. La fotografia sgranata accentua i contrasti tra luce ed ombra, tra caldo e freddo. Ma non poteva essere diversamente. E ci pensa poi il montaggio a mescolare e armonizzare tutti gli ingredienti.
Nonostante la frammentazione estrema, infatti, alla fine tutto torna. Troppo.
Perché c’è anche qualcosa che non convince fino in fondo, nel film. E forse è proprio questa sua perfezione, per certi versi così simile a quella di Amores Perros, primo film del regista. Inarritu sarà uno di quegli autori che batteranno per tutta la vita sullo stesso chiodo? Ma in fondo, non è neanche questo a lasciarci in bocca quella strana sensazione… Perché allora quella punta di fastidio, all’uscita della sala? Solo per la tristezza e la cupezza del racconto? Il montaggio, soprattutto nella prima parte del film, gioca con noi spettatori, ci confonde le idee, ci cattura, ci fa fantasticare un po’ sui possibili perché della storia. Ma quando arrivano i titoli di coda, abbiamo già capito tutto, il puzzle è finito, completo, senza buchi, tutte le tessere al loro posto. E non c’è più nessuno spazio per la nostra immaginazione, per la fantasia. E nemmeno per l’interpretazione.
E’ la speranza la chiave di tutto.
Il finale è meno aperto di quel che sembra. Eppure, alcune domande ci restano dentro. Non riguardano il film, né la storia che, precipitando dentro lo schermo, abbiamo vissuto. Ma la nostra vita, la vita di tutti.
Quanto pesano 21 grammi? 21 grammi sono il peso di cinque nichelini uno sopra l’altro, di un colibrì, di una barretta di cioccolato. 21 grammi sono il peso della perdita, il peso che la morte, nell’attimo esatto in cui arriva, ruba al nostro corpo. 21 grammi: che sia allora il peso dell’anima? Che sia tutta qui la differenza tra la morte e la vita? Quante morti abbiamo a disposizione? E cosa significa vivere?

Stefano Borgo

Recensione n.4

Come gia’ nel fulminante esordio “Amores Perros”, il messicano Alejandro Gonzalez Inarritu affida a un incidente il motore dell’azione. Sara’ un terribile incidente stradale, infatti, ad incrociare il destino di due uomini e una donna. Dopo una prima parte ben costruita, in cui una narrazione non lineare spazia a tutto campo sui personaggi rappresentati alternando il presente a flashback e ad anticipazioni sul futuro, il film arriva ad una resa dei conti in cui l’alto potenziale vira inutilmente al greve. Come se una chiusa disperata potesse dare un surplus di valore a un film che inanella tanti, troppi argomenti (senso di colpa, elaborazione del dolore, droga, trapianti, redenzione, peccato, vendetta, destino, predestinazione) senza approfondirne alcuno. Il regista conferma la sua abilita’ per il racconto corale, dando ad ogni personaggio, anche minore, adeguato spazio, ma quello che alla fine ne viene fuori e’ un drammone a fosche tinte un po’ ricattatorio, che indugia sullo strazio, tenta di smuovere l’emotivita’ e per farlo usa il piccone. Gli interpreti sono comunque bravi e in parte: Benicio Del Toro conferma il suo carisma, Naomi Watts non fa che piangere, ma lo fa bene, e Sean Penn continua il suo personal percorso lontano dalle major e dai blockbuster e fedele a un cinem indipendente nella forma e nei contenuti. Qui evita le smorfie e gli eccessi, non di rado presenti nella sua recitazione, ed e’ stato giustamente premiato a Venezia con la Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Maschile. Il titolo e’ gia’ una dichiarazione d’intenti: i 21 grammi corrispondono infatti alla perdita di peso che il corpo subisce quando si muore.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.5

Il destino incrocia le vite dei tre protagonisti. Fra la vita e la morte ad ognuno di loro verrà concessa una seconda possibilità…
Rivelatosi con l’ottimo Amores perros il regista messicano Iñàrritu realizza la sua prima opera a grosso budget di produzione americana e commette un mezzo passo falso. Iñàrritu appartiene alla folta schiera dei nuovi autori che attraverso la centralità del montaggio, cercano di liberare il cinema dalla abusata consequenzialità narrativa. La non linearità del racconto è memore del cinema di Tarantino (o meglio del cinema di Godard). Fino a quando il gioco viene sorretto dai bravissimi attori (Sean Penn e Benicio del Toro come al solito sono tremendamente credibili) il melò risulta intrigante. Nello svolgersi della pellicola il meccanismo diventa troppo scoperto e prevedibile, l’artificio diviene autocompiacimento e la narrazione perde peso. Ricomposto il puzzle l’intreccio risulta improbabile e la scelta narrativa un cosmetico non necessario.

Paolo Bronzetti