La rivincita delle “spose” ribelli sulle funi 3D, sui thriller da “camera” e sui noir pasticciati all’italiana

Rapsodie antibollywoodiane e nuove primavere arabe guadagnano i premi del pubblico alla Festa del Cinema.
Alla Festa del Cinema di Roma 2015 il cinema maiuscolo senza essere controverso, debordante senza essere irrisolto né confuso, quello avvolto e pulsato di viscere e di sinapsi, quello dei brividi inerpicati sotto pelle e non appena sollevati da un posticcio benché spettacolare 3D, non sta appeso ad una camminata su fune d’acciaio a 400 metri di altezza dalle compiante mostruose torri gemelle o nelle quattro pareti di una “stanza”-mondo fatta di violenza suburbana. Bensì viene dall’ex Terzo Mondo iper capitalizzato. Facendo capolino e persino vincendo, arrampicandosi tra documentari “piombati” nel cuore di uragani di cielo, oceani e altre divinità adirate; ring oltre-umani in cui la legge del doppio diventa evasione impraticabile dell’Io deragliato dai sensi di colpa per aver assecondato una realtà alienante.
Tra le bolle gonfiabili del festival il zemeckisiano americanissimo The Walk 3D ispirato ad una storia vera, come un’avventura a ventimila leghe sopra l’immaginario umano, tra nuvole e altri “sensi” di gravità, rocambolesco e giganteggiante, strappa le budella ma le lega alla corda d’acciaio sulla quale fluttua il temerario sognatore funambolo Philippe Petit che rilegge la verticalità asettica delle abbattute sorelle di acciaio e cemento (commemorazione sotto le righe della memoria patria e collettiva per ciò che le torri annichilite nel Ground Zero, della civiltà della Frontiera e delle esportazioni democratiche, avrebbero-hanno rappresentato). E la produzione canadese Room presa in prestito dalla cronaca americana dei grandi rapimenti suburbani, in cui la relegazione dello sguardo alla prospettiva micro-universale della prigionia mentale e fisica, non trova rispondenza né tecnica né emotiva.
Sorprese invece dalla Turchia e dall’India con furore. Due i film che al proprio ritmo pop-fusion smascherano stereotipi ri-editandoli con stile ed energia senza effetti speciali. Cinque spose in erba, cinque prede “uniche”, cinque discepole indisciplinate, in Mustang (film vincitore della menzione speciale per il Premio Taodue nella sezione Alice nella Città). Creature selvagge nella babilonia delle ipocrisie e della natura irrefrenabile, che scuote inferriate, confusa con la modernità già tra-passata, de-tenuta, che bussa all’uscio chiedendo donne che siano persone prima che mogli. Cinque spose turche, cinque ragazze interrotte, cinque cavalli indomabili. Selma, Soany, Ece, Nur e la piccola Lale, il periscopio oltre la cupola di menzogna, abuso e solitudine, il grimaldello contro la segregazione, la nuova miccia per una dolorosa necessaria liberazione. Tumulate in casa, arroccata sopra scritte di amori infantili e inevitabili, incancellabili, tumulate nella “fabbrica delle mogli” a stendere pasta e preparare corredi. Supervisionate dai carcerieri della famiglia mutila, la nonna timorosa, corrosa dal rimorso e da un coattivo servilismo genetico, ma anche fragile e defraudata da ciò che non può controllare, e lo zio collerico, oltremodo ottuso, retrogrado repress(iv)o retaggio di una società che ha terrore di evolversi, di vedere erosi gli zoccoli duri del potere, e deraglia dentro mura spesse e separazioni pigramente sessuali che sotterraneamente facilitano odi e inganni. Mustang, in uscita in Italia il 22 ottobre. Già presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2015 e vincitore del premio Label Europa Cinemas, è stato definito, in pre-proiezione per il Concorso di Alice nella Città, il “vincitore morale” di Cannes 2015.

Il giardino è chiuso, da sbarre progressive e remissive, a queste “vergini” suicide che vogliono guardare oltre il proprio naso, esplorare i propri istinti. Cinque le protagoniste in fuga da una troppo breve adolescenza, come ne Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (USA 1999), contropartita inevitabile ma non scontata, ispirate ad un racconto letto dalla regista/sceneggiatrice Deniz Gamze Ergüven in tenera età. Probabilmente influenzata dalle infanzie negate dei Dardenne e dall’anarchia problematica del turco “migrante” Fatih Akin, Deniz infrange e ricostruisce il castello sessista omertoso tradizionale, per schierarci al suo interno insieme alla cinque fanciulle alle quali è negato il diritto di scegliere in qualsiasi modo il corso del proprio destino. Matrimonio combinato, penitenza, umiliazione soffocata, l’unica chiave di lettura del futuro. Alcune di loro si presteranno, altre voleranno via da finestre invisibili, altre fuggiranno nel proprio altrove fatto di sesso occasionale o di ponti sospesi su città troppo grandi per non accogliere chi vuole sentirsi diverso.

Sorrisi e sangue. Dee indignate pronte a distruggere protesi e a spezzare reti omertose, alla corte di tirannie psicosociali tutte da decapitare. Il miglior film e il premio ufficiale del pubblico alla Festa del Cinema è Angry Indian Goddesses.
Insolito buddymovie in “rosa” in stile addio al nubilato con presa di coscienza mucciniana? Molto di più. Disordinatamente insieme, per scrostare tabù e godere nuove possibili liberAzioni. Altare spiaggia bara. Dopo il rivelatore classico Mustang, la Festa del Cinema viene investita da un’altra ma non diremmo ennesima traversata nell’universo dell’arduo riscatto femminile nell’ex Terzo Mondo macellato nel tritatutto della globalizzazione del mercato culturale, sociale, sessuale. In una civiltà dalle identità multiple e ancora in cerca d’autore, ingabbiata e sfregiata da un maschilismo paleolitico che de-personalizza l’essere o resistere umani, come farsi donne prima che femminino da riproduzione, come (s)vestirsi dello stereotipo senza essere lapidate, come scuotere il ventre al ritmo del proprio Ego senza assecondare i dettami della violenza (in strada come su un set?)? Il prezzo del “no” nell’India di oggi che è per sempre ieri. Una mamma-manager ipercinetica e assente, capo di una multinazionale che defrauda la popolazione della propria terra; una mezzo sangue aspirante attrice da bollybox office che rincorre eppure rifiuta lo stereotipo della donna-oggetto; una fotografa di talento raffinato che non sa piegarsi ai ricatti pubblicitari e sta per sposarsi in segreto; una moglie imbozzolata a forza nel suo ruolo dorato; una cantante fuori dal coro che ha dimestichezza con i suicidi tentati; una governante che non ha mai conosciuto l’amore perché terrorizzata dal dominio maschile. Intorno autorità sorde e razziste e indifferenza pericolosa dei “simili”. Dalla geografia remota di un villaggio del Subcontinente, figlio di un venditore di tè dalle ambizioni tutt’altra che sotto-messe, il regista Pan Nalin affonda incalzante nelle lotte femminili, evitando la retorica fine a se stessa di operazioni affini e intessendo coloratissimo un romanzo di piccole donne semplice ma non esile. Nalin mette a frutto la resilienza atavica e la saggezza mimetica di chi smina non senza una mappa accurata, studiata in anni di esplorazione/migrazione di linguaggi “stranieri”, il confine interminabile delle “caste” mentali prima che sociali, cannibalizzando i codici della comunicazione “ufficiale” e del capitalismo post coloniale della sua enorme devastata immutabile Terra. Con Angry Indian Goddesses si candida come icona pop rivoluzionaria del cinema extra, firmando seppur giovane, la sua (prima) equilibrata opera omnia sull’India (non solo) borghese contemporanea, coreografando o meglio cucinando non senza spezie riconoscibili, la propria visione documentaristica romantica, espressa con l’ipnotico paziente e sensuale Samsara, remixandola in una ricetta “fusion” certamente furba perché dosata per un yper-target, per un cinema totale. Commedia, nel senso più ampio e letterario, documento civico, rovesciamento bollywoodiano e dramma d’amore, thriller dell’anima, cronaca di guerra intestina e marcia per i diritti, a passo di musica. Fame di vita, rabbia di giustizia. Angry Indian Nalin.

Sarah Panatta