RECENSIONE N.1
Uscire dalla dipendenza, il tema portante di 28 giorni, è un tema che il cinema americano ha affrontato più volte, producendo spesso opere memorabili, vedi “Giorni perduti” di Billy Wilder. Sandra Bullock, però, non è certo all’altezza di protagonisti “epici” come Ray Milland (cosa che per certi versi può anche far felici…!!!) e Betty Thomas (l’agente Bates nel leggendario “Hill Street Giorno e Notte”) ha ancora molto da camminare nella sua carriera registica.
Il film, in breve, narra il cammino verso la redenzione di un’alcolizzata-tossicomane, condannata a 28 giorni di comunità di recupero, in sostituzione del carcere.
La Bullock è, come sempre, carina e simpatica e si sforza di offire qualcosa in più rispetto alle sue classiche interpretazioni monocordi; risultato sufficiente.
“28 giorni” risulta un film imperfetto, disomogeneo nel non riuscire a seguire una linea drammatica precisa; la cifra stilistica porta la narrazione a sbalzi continui dal dramma alla commedia e questo, se da una parte mostra i limiti di una sceneggiatura d’impianto sin troppo tradizional-hollywoodiano, dall’altra evidenzia le idee pungenti del cinema della Thomas. Curiosamente i limiti di quest’opera diventano, ma solo a tratti, anche i suoi pregi, rendendo il film abbastanza godibile nella sua incoerenza programmatica.
La vita di comunità viene resa, nel complesso, come si é già vista tante volte nel cinema di genere tossico-alcolico, seguendo un andamento spesso scontato tra momenti di crisi, rinascita, sentimento e tragedia; purtroppo il film perde spesso di vista il giusto peso delle emozioni, non mancano, quindi, le “derive” emotive.
Un film, per dirla come Mereghetti, da 2 stelline (o due palle, che dir si voglia…).
Vito Casale
RECENSIONE N. 2
Mi avvicino a questo film con una grande ammirazione per una pellicola che sorprende sia chi si aspetta una commedia semplice e divertente, sia chi pensa ad un film un po’ sentimentaloide con la “solita storia” della comunità di recupero che cambia la vita.
Sicuramente 28 giorni non è il primo né l’ultimo film che tratti di una comunità. E di certo il tema dell’alcolismo o delle droghe non è un terreno inesplorato nella storia del cinema.
Ma raramente credo di aver visto un film che tratta una vicenda dai mille risvolti umani come quella di Gwen, lasciando allo spettatore tanti spunti di riflessione e tante domande profonde, pur condotta sempre da una leggera comicità, che diverte lo spettatore accompagnandolo con maestria nella vicenda ed evitando che il film possa cadere in un patetico sentimentalismo.
Il dramma di tante vicende umane che si intersecano offe molte opportunità di riflessione: ognuno credo si senta coinvolto nel personaggio di Gwen che costruisce una sua personalità proprio grazie all’incontro con quelle persone che la società tende a scartare. Ma in fondo la società è la stessa che rifiuta chi ha un passato inaccettabile (la compagna di stanza ricorderà a Gwen “sei mai uscita da una comunità?” ricordando cosa sia la cosa più difficile), mentre chi ha vissuto una vita difficile, con tanti sbagli, è pronto a ricordarci che non sono gli sbagli che contano, ma quello che tu sei, e che è giusto.
La sorella di Gwen rappresenta in modo convincente una società “bene”; e ci pone forse una delle domande centrali del film: è giusto “concedere” che una vita difficile, che circostanze sfavorevoli, possano portare una persona a rovinare la propria vita e quella degli altri? Se le due sorelle sono cresciute con le stesse difficoltà, è giusto essere comprensivi in chi ancora “non ha imparato a vivere?” A una risposta affermativa conducono i continui flash-back sull’infanzia di Gwen; a una risposta negativa, da considerare, porta il fastidio provocato dall’immagine di Gwen ubriaca che brinda offendendo la sorella nel giorno del suo matrimonio. Ma la risposta sta allo spettatore.
E sono proprio i dialoghi a dare valore a questa pellicola: non è un film di frasi fatte (lo ricorda proprio Gwen “non essere una frase fatta, perché sei una poesia”), non è un film di dialoghi lunghi e sapienti. E’ un film di frasi brevi di vita vissuta, in cui i discorsi psicologici di chi guida la comunità infastidiscono di continuo proprio perché lontani dalla storia, mentre sono le poche parole di chi condivide ad entrare nella mente dello spettatore per portarlo a ciò che più lo riguarda.
Molto valida, a mio parere, l’interpretazione di Sandra Bullock, che interpreta un ruolo difficile proprio perché in continua evoluzione, con la costruzione di un personaggio complesso, ma dipinto con grande profondità e realismo.
In un periodo in cui i film sembrano dover durare per forza almeno 150 minuti, 28 giorni è invece un film forse fin troppo breve: un’evoluzione umana così radicale ed importante viene ad essere un pochino semplificata solo dalla rapidità con cui si svolge (anche nella realtà, forse 28 giorni sono solo il tempo della ribellione).
Francesco Caronni
RECENSIONE N.3
In 28 giorni c’è dentro un po’ tutto e quindi non viene approfondito niente più di quel tanto. Forse non era questo l’obiettivo degli autori; il messaggio, però, nel complesso è chiaro e, tutto sommato, risulta gradevole per chi esce dalla sala colmo di buoni sentimenti e felice per il lieto (scontato) fine, salvo poi inciampare in qualche tossico a terra o scoprire che ti hanno ciulato l’autoradio.
Dal momento che mai ho scritto in vita mia un commento (lasciamo perdere per carità la recensione che è ben altro…) a un film e non sapendo bene da dove iniziare mi sono soffermato al primissimo approccio: la locandina. E qui sorgono le prime perplessità; nella locandina originale il sottotitolo recita “The life of Party… before she got the life” ma sulla locandina appesa sul muro del cinema leggo “La vita è una festa… basta saperla vivere”. Senza essere madrelingua e senza scomodare l’Oxford Advanced Learner Dictionary balza all’occhio che qualcosa non torna, non tanto nella finezza letteraria quanto proprio nel significato. “Va beh, – mi dico – inizamo a vedere il film, poi ci si pensa”. Confrontando poche scene scaricate via internet come trailer (in originale), la traduzione tuttavia appare francamente modesta…
Nella versione italiana molti eventi vengono dati per scontati e brevi “buchi” di dialogo, di cui peraltro difficilmente ci si può accorgere senza un confronto diretto con l’originale, celano brevi informazioni che orienterebbero un po’ di più lo spettatore. Non si ha alcuna indicazione, per esempio delle nozze della sorella in primissima scena… in originale il film si apre con la Bullock che dice “Jasper, it’s late for my sister’s wedding…” che tristezza (o meglio, what a sadness!!!), cosiccome del tutto oscurato è il riferimento alla conversione della pena da scontare in carcere in detenzione in casa di cura. Scontato, direte. Un insulto alla personale perspicacia e una giusta riparazione ad un amore per il “ridondante” che, se può incontrare il gusto americano, non è gradito al pubblico di casa nostra. Ma chi garantisce che la “manipolazione” non sia più profonda? In effetti con il proseguio della pellicola le divergenze sembrano aumentare: riporto di seguito una frase che era detta da Eddie in una scena (copio e incollo dal sito www.soapcity.com/28days
“…Of not being able to look people in the eye. Of killing three hours in the locker after a game, just so by the time I leave, all the fans’re gone and I don’t have to see ‘em. I don’t wanna be like that. I wanna be able to look at a kid and know what he thinks of me and what I think of me is the same.”
Questo non è una semplice “chiosa” a una scena: dovrebbe rappresentare piuttosto un tassello della psicologia del personaggio, un suo elemento di riflessione, e di riflessione per il pubblico. Questa frase però non è tradotta. Purtroppo il sito non contiene il file video ma è facile “piazzarla” nel punto giusto visto che, proprio per la superficialità e velocità con cui il tema è trattato anche i momenti di introspezione si risolvono in poche sequenze.
Ci si chiede quindi come si possa tentare di esprimere giudizi su un’opera (d’arte o meno è poi da vedere di volta in volta) se cambiano le parole e il senso, laddove gli autori hanno (o almeno dovrebbero) scegliere con cura ogni particolare.
Se così non fosse, allora anche il cinema (inteso nelle sue differenti parti costitutive di sceneggiatura, regia, sonoro, etc.) sarebbe alla portata di tutti e il buon gusto personale renderebbe chiunque di noi alla pari di un Fellini o di uno Spielberg. Crediamo che non sia così e allora andiamo a cercare se ancora ci sfugge qualcosa, ma non nel significato dell’opera (che, per dirla con Riondino, suonerebbe “morale: bere vino fa male!”), bensì nel significato dei particolari, delle sfumature, dei personaggi falsamente ritenuti “non-protagonisti” (e che sono a volte poi i più interessanti) per cercare di carpire (con ampio margine di errore e con estrema modestia) se c’è qualcosa in più, tra un fotogramma e l’altro. Anche perché forse altre pellicole hanno già trattato il problema più diffusamente o più profondamente e pertanto appare plausibile che gli autori abbiano voluto aggiungere qualcosa a ciò che è già stato detto ed è chiaro a tutti.
Come in un puzzle proviamo a “mettere sul tavolo” alcuni pezzi e vediamo poi se c’è modo di assemblarli e il significato che assumono.
Premetto che quanto segue è puramente riferito a questa specifica “opera” e a un trend che mi appare evidente in parte della produzione cinematografica statunitense attuale e trova i suoi limiti ben definiti di critica in questo ambito.
La struttura del film è fondamentalmente basata su diverse storie contrapposte. Una strategia narrativa antica, di ispirazione manichea, molto “facile”, immediata e semplice da gestire: c’è il buono e c’è il cattivo, l’esempio virtuoso e quello da aborrire. Così, proviamo ad analizzare una delle diadi presenti: quella tra Jasper ed Eddie. Mi appare peraltro che il significato finale di questa diade sia ben mutuabile dalle altre e che ben rappresenti un diverso significato di questa pellicola, forse tra molti altri che gli autori hanno voluto comunicare.
Scopriamo allora che l’attore Dominic West (Jasper) è Britannico. Nessuno lo dice, a noi sfugge, ma chiaramente parlerà Inglese britannico e non americano. Di ciò il pubblico americano se ne accorge immediatamente e infatti il personaggio Jasper è inglese (rif. a un’intervista rilasciata dall’attore nel sito sopra citato).
Parimenti, Viggo Mortensen dice del suo personaggio: “Eddie’s from Guthrie, Oklahoma. He grew up on a ranch, so he’s not that familiar with the fast life and the big city. …”
Eddie, quindi, è lo stereotipo del tipico ragazzo americano, ma non quello newyorkese, immerso in una realtà multirazziale, proiettata nel mondo, carica di dinamismo e problemi e povera di identità. No. E’ di un piccolo paese dell’Oklahoma… che, anche a noi che non l’abbiamo mai visto, fa venire in mente, paesaggisticamente, le scene della “Casa nella Prateria”, e culturalmente un ambiente in cui sono ancora forti i valori più strettamente “americani” storici, etici e morali; senz’altro più identificativi delle radici di un popolo, seppur moderno, quale quello statunitense.
Nell’antitesi che nel film si viene a creare tra i due personaggi, così connotati, si può vedere, a lato della storia DELLA protagonista, un racconto parallelo; o meglio, uno scontro tra due culture che potrebbe portare ad altri (e più inquietanti) significati che gli autori hanno voluto inserire nel loro messaggio. Quali? Ma il solito! Lo stesso di Indipendence Day, come di altre produzioni più o meno recenti che parlano di argomenti anche apparentemente diversi tra loro. Il rito di autocelebrazione, seppur (leggermente) celato, si perpetua, questa volta basato sulla grande forza morale e di volontà delle sane – e con vis polemica, lo ammetto, si potrebbe arrischiare un “pure” – radici statunitensi: un esempio da seguire per riuscire a risolvere i problemi, seppur complessi, che realmente esistono e che non hanno una soluzione così “facile”; con la solita nota di superiorità nei confronti del resto del mondo (e al “diverso” in generale) tanto cara alla cinematografia statunitense, a differenza del trend cinematografico italiano, ad esempio, che tende forse verso l’eccesso opposto.
Ecco disvelato allora l’intento “pedagogico”, che all’estero viene naturalmente perso e svilito; un tentativo di infondere “valori” a chi valori forse non riesce a trovare (infatti l’alcoolismo non è un problema solo europeo, anzi…). Ognuno tragga poi le conclusioni che ritiene più opportune.
Lascio a voi il piacere di trovare altri riferimenti che combaciano con questa visione o, in alternativa, vi risparmio la noia di indicarne molti altri (ci vorrebbero 20 pagine, un po’ troppo tempo e vi potrebbe provocare un varicocele incoercibile di cui non sopporterei il peso…)
Tuttavia tanti tasselli trovano una loro logica collocazione e anche le tipiche scene dove lo spettatore vorrebbe che la sedia sprofondasse per un attimo e si chiede “ma ho anche pagato il biglietto per essere qui…” assumono significato: svelato è il valore simbolico dello zoccolo del cavallo: è infatti in quel frangente che l'”atleta (guarda caso giocatore di baseball… non poteva, che ne so… fare il muratore o il panettiere… insomma, è l’equivalente dell’italiano pizzaiolo!!!), ragazzotto, donnaiolo, grande&grosso, bello&figo very american” si scopre filosofo; ed è a lui che la Bullock, nell’ultima scena rivolge l’invocazione “ho bisogno urgentemente d’aiuto!!!!!”, quasi come a idolo salvatore innanzi al diavolo tentatore di Sua Maestà.
Sarebbe troppo riduttivo comunque fondare su solo questi due personaggi una critica; infatti anche gli altri ben si inseriscono in questa chiave di lettura. Sinteticamente; i ricoverati in casa di cura sono stati accuratamente selezionati: c’è una donna di colore, altri poco identificabili, due figure comiche, l’una gay (ovviamente ridiamoci sopra: è gay! cfr “paura=derisione del diverso) e l’altra che non si sa bene perché sia lì se non per scopare, tutti comunque che richiamano, in maniera diversa, alla “differenza” dallo stereotipo dato da seguire, tutti diversi da Eddy, insomma.
Anche il pentimento della sorella di Gwen (altra sequenza apparentemente stonatissima nel suo palese manierismo), esempio di “sano stile di vita” (mi verrebbe quasi da aggiungere “statunitense”) può rappresentare l’appello all’accettazione del diverso che però poi è rivolta verso la protagonista che, tra tutti i convenuti dell’allegra compagnia, è quella che di “diverso” non ha proprio nulla e cade così miseramente la contrapposizione con l’insensibilità della madre della compagna di stanza di Gwen, morta sola e suicida, la quale affida la sua morale di vita alla sudamericana Santa Cruz (e vi siete chiesti perché mai non a “Dallas”, se proprio una soap-opera doveva essere citata e ridicolizzata?).
Forse è anche questo che gli “intenditori” di cinema non sopportano più le produzioni made in Hollywood e si rifugiano nei film orientali di 6 ore con 4 dialoghi; ma a noi comuni mortali ciò può anche non tangere per nulla e essere ancora felici di aver speso 12.000 lire e qualche ora del nostro tempo anche se la Bullock nuda è stata soltanto intravista dietro un vetro smerigliato, nella speranza che la volta prossima vada meglio!
Mattia Bonsignori