Interessante prova del regista siberiano Sokurov, autore di film intensi come “Madre e figlio”. Stile registico inconfondibile: silenzi infiniti, luci evanescenti, immagini pittoriche, la morte che aleggia silenziosa: bagliori di poesia sublime. L’immobilismo come tentativo di esorcizzare la morte o allontanarla anche solo per un attimo, o forse catturarla per sempre…
Moloch, in breve, racconta una giornata di vita (1942) di Hitler in compagnia di Eva Braun, Joseph Goebbels e moglie, nel buon ritiro sulle Alpi Bavaresi. Eva cerca invano un riscontro amoroso nel suo freddo amante. Premio meritatissimo a Cannes ’99 per la sceneggiatura, Moloch riproduce la convivenza abituale con l’orrore ed il fascino del potere.
Sokurov reinventa luoghi, spazi, per ospitare un convegno di spettri che non si accorgono di essere trapassati. Un Hitler e una Eva Braun ridotti all’essenziale, messi a nudo in tutta la loro disarmante umanità/non umanità.
I personaggi di Moloch sembrano quasi appartenere al teatro, ad una piece simil-brechtiana in cui si vuole denunciare l’assurdo che si cela spesso nel vivere. A tratti, e questo è uno dei limiti del film, sembrano la parodia, la caricatura di se stessi. A volte si sconfina nel grottesco (Hitler chiede “cos’è Auschitwz?”).
Tra musiche crepuscolari di Wagner e spezzoni del cinema della Riefensthal, Sokurov rappresenta un’umanità disumanizzata; Moloch sembra un’opera immersa in colori e sfumature che puzzano di morte, in cui i personaggi sembrano schiacciati dall’assurda perfezione del nulla.
Assai evidente lo stridore tra il ritratto di un uomo fragile e meschino, emblea del male nel mondo (Moloch), e la leggerezza di Eva che conserva una curiosa sintonia con la natura.
Vito Casale