RECENSIONE N.1

Se il titolo del film significa che dal proprio lavoro è lecito aspettarsi sia il sostentamento, sia il rispetto dei diritti fondamentali, azzardando un paragone un po’ rischioso, aggiungerei che dalla visione di un film lo spettatore si aspetta sia lo spessore del contenuto, che la qualità della forma. Ken Loach è riuscito a soddisfare in pieno tutte e due le richieste. Finalmente si rivede una storia di lotta (quasi di classe) in un’America che cerca di abbindolarci con la barzelletta del neoliberismo che risolve il problema dell’occupazione, finalmente si inneggia al valore della solidarietà come mezzo per ovviare all’impari rapporto di forza fra poveri e ricchi (o, forse, perché non dire fra proletariato e capitale?), finalmente appare una Los Angeles che non è solo Beverly Hills o Malibù, Gangsta Rap o Glam Rock, Pretty Woman o Frank Poncharelli, ma anche (e soprattutto) immigrati e persone disagiate che volentieri rinunciano alle Roses pur di avere il Bread. Peccato che a dircelo sia un inglese… Anche esteticamente “Pane e Rose” non delude mai: quei colori caldi, sempre attenuati da un’ombra di malinconia e precarietà, fanno di Loach il miglior ritrattista di periferie in circolazione, per non parlare dell’ansiogena camera a spalla delle prime sequenze, dimostrazione esemplare che con la semplicità si possono ottenere i migliori risultati. In definitiva “Bread and Roses” è un film profondamente anti-individualista, che rilancia la dignità e la forza costruttiva del “muro contro muro”, alla faccia della new economy e della concertazione, fino in fondo (hasta la victoria, siempre!). Sul mio podio stagionale di diritto.

hombre

RECENSIONE N.2

Il film più atteso dell’anno, per quanto mi riguarda.
Un nuovo capitolo che va ad aggiungersi al progetto-Loach.
Non solo di cinema si tratta; quando parliamo di un’opera di Loach, parliamo di qualcosa che tocca anche altre “corde” e non necessariamente si deve giudicare il film solo con i più o meno rigidi canoni cinematografici.
Almeno io non ci riesco…
I film di uno dei più grandi rivoluzionari della nostra era, non mi lasciano il tempo di controllare la perfezione delle inquadrature o i movimenti-macchina, il montaggio o la presenza o meno di un buon direttore della fotografia. Loach ha la capacità di catapultarmi da subito “dentro” all’anima delle sue pellicole.
Anche qui la sceneggiatura e’ affidata al fedele Paul Laverty e Loach gli affida come sempre il compito di inserire dei dialoghi anche troppo “didattici”. Loach vuole far passare un messaggio tramite le sue storie, gli e’ indispensabile, crede sia indispensabile per molti, forse per troppi. Troppi non conoscono certe realtà e certe parti dei suoi film sono quasi finti-documentari, dialoghi che informano lo spettatore riguardo alla posta in gioco, dialoghi che servono a far capire perché il colore rosso e’ “ancora” importante. Purtroppo c’e’ da dire che chi accorre a vedere i film di KL queste cose le sa già, e le sale non sono certo traboccanti di gente (quando ci sono andato io eravamo una decina di persone..).Brutto segno, anche se non e’ una novità.
In questo B&R i dialoghi non raggiungono la perfezione, anche stilistica, raggiunta nel suo capolavoro “Terra e Liberta’”, dove la discussione sulla “proprietà terriera” veniva anche filmata in maniera pressoché perfetta, ma probabilmente non ne può fare a meno. Sarebbe bello per una volta che un suo film desse per scontato di avere di fronte una platea colta in materia, ma Loach sa che non e’ così, o almeno chi si imbatterà nella visione dei suoi film in ambiti diversi dalla sala cinematografica, probabilmente non capirebbe poi molto, certamente non coglierebbe la completezza del messaggio. Per cui quei dialoghi, li ascolto, non li apprezzo molto, ma li comprendo e ammiro sempre più quel progetto ormai in piedi da più di 35 anni. Come al solito magnifici i volti degli attori , anche se quasi irrimediabilmente deturpati dal brutto doppiaggio, e l’uso che il regista ne fa. Anche un dialogo al limite del patetico, come quello finale tra le sorelle Maya e Rosa, riesce a trasmettere qualcosa grazie ai volti delle persone. Pochi registi (forse solo Mike Leigh) sanno filmare situazioni del genere nella maniera di Loach. Il contesto creato e la conoscenza dei personaggi acquisita anche tramite dialoghi precedenti, rendono il tutto credibile.
Bravo (molto) Adrien Brody, che potrebbe essere per Loach il nuovo Carlyle, da usare ancora per un paio di film se il successo non monta troppo velocemente.
I cortei rossi filmati, gli slogan, la netta distinzione di classe quasi esasperata dalla regia, potrebbero facilmente essere catalogati come retorica, come facile propaganda politico-sindacale, per catturare le simpatie del pubblico.
Ma il pubblico di KL già le conosce queste cose e non ha bisogno di esserne conquistato. Io lo considero invece un gesto di coerenza e coraggio: non saranno certe le bandiere rosse a farGli conquistare nuovi ammiratori che casualmente potranno imbattersi nei suoi film, ma se ci riuscirà sarà grazie al “suo” (e di molti altri…anche se non la maggioranza) messaggio.
Il rosso e’ un corollario “indispensabile”. In certe realtà c’e’, non se ne può fare a meno…non ne possono fare a meno neanche quelli che stanno dall’altra parte della barricata che lo possono ostacolare con mille altri colori, ma prima o poi il “rosso” esce. Ce ne accorgiamo solo quando l’acqua arriva alla gola, ma l’importante e’ che continui ad uscire e Loach col suo progetto ci aiuta a ricordarlo.

Franco

RECENSIONE N.3

Siamo ormai abituati al confronto con la nostra coscienza che ci offre ogni anno la nuova opera di Ken Loach, regista che fin dagli anni 60 del free cinema inglese non ha mai perso la rotta della coerenza.
Anche in tempi ambigui e difficili per le ideologie come i nostri, il regista britannico sembra sapere sempre da che parte stare. La sua attenzione è rivolta solo sugli ultimi, di volta in volta la piccola fetta di realtà che racconta mette in crisi il meccanismo economico del sistema capitalistico.
Con Bread and roses ci spostiamo in america per seguire la storia di due immigrate clandestine, la dura Rosa e la passionaria Maya. Assunte da una grossa ditta di pulizie, sono avvicinate da Sam, un attivista americano che lotta per i diritti dei pulitori immigrati. Privi di ogni assistenza e cassa malattia, nel paese più ricco del mondo, ricevono cinque dollari l’ora lavorando per sedici ore al giorno. Maya attratta anche fisicamente dal diverso Sam farà propria la battaglia sindacale, Rosa angosciata dalla malattia del marito (privo di assistenza sanitaria) cercherà delle scorciatoie meno pericolose dello scontro. Analizzando lo sviluppo della filmografia degli esclusi del britannico Loach, si può scorgere un apertura del suo cinema ad influenze disparate, come il melò e la commedia. La Canzone di Carla è il punto di svolta. Il regista sembra cercare nuove vie al suo far cinema, cambia la dosatura degli ingredienti, innesca sempre più una narrazione popolare e melodrammatica, all’interno di una situazione sociale esplosiva, da cinema-verità.. Bread and Roses è un ulteriore passo in questa direzione, lo stile documentaristico e realista proprio del free cinema è diventato spurio (forse solo i primi dieci minuti della fuga oltre confine). La narrazione prende il sopravvento, i personaggi sempre più complessi, non sono solo pedine necessarie all’ideologia. L’interesse per le psicologie individuali si affianca a quello per le sociali, Credo che sia una scelta ponderata, fatta forse per avvicinare un pubblico differente, più vicino a quello che Loach descrive nelle sue pellicole. Sicuramente in certi momenti i dialoghi sembrano bruschi e risaputi, i personaggi minori poco complessi, le aperture al comico e al melò affrettate e aliene dal corpo filmico. Ma chi ama Loach, ama anche questa sua imprecisione di scrittura dettata dall’orgogliosa e passionaria fede nel mezzo cinema. Un cinema capace di avvicinare lo spettatore ricco e occidentale a mondi diversi dal suo facendolo soffrire per una usurpazione di diritti che non ha niente di umano. Siamo costretti a scendere dai piani alti dei palazzi, per accorgerci di quello che avviene nei sottoscala. Metterci sullo stesso piano di Rosa e Maya, combattere con loro contro dei soprusi che troppo spesso i mass-media ignorano, in nome del quieto vivere civile. Dobbiamo scrollarci di dosso gli stereotipi che fanno di ogni immigrato solo un possibile criminale (il furto che condanna Maya qui è mostrato come l’unica via per riparare un’ingiustizia), pensando invece che gli immigrati sono le colonne portanti di ogni economia evoluta. Allora non importa se Maya sarà espulsa, la battaglia è vinta, la coscienza di classe riaffiora, forse ci sarà un futuro migliore per milioni di immigrati clandestini, costretti a condizioni di vita incivili, alla prostituzione del corpo e dell’anima. Forse è giunto il momento di chiedere oltre al pane anche le rose.

Paolo Bronzetti