Recensione n.1

Abbiamo tutti sentito parlare di questo mitico cinema indiano che produceva più film di Hollywood, le cui star riuscivano a partecipare anche a 60 film in un anno e poi, finita la carriera venivano elette a governare stati grandi il doppio dell’Italia. Poi, ogni tanto, poteva capitare di vedere qualcosa di questo cinema – giganteschi melodrammi-musical molto colorati con grandi balletti e talvolta film d’azione tipo kung-fu con gli dei a scambiarsi sganassoni. Bah. Ultimamente però alcuni registi indiani stanno cominciando a lavorare in America ed Inghilterra ed i risultati sono notevoli. Shekar Kapur con Elizabeth, Tarsem con The Cell e M. Night Shaylaman con Il Sesto Senso e ora Unbreakable. Sono tutti film molto belli da vedere, con un uso del colore magistrale ed espressivo, tipico di un’arte che privilegia colori forti e primari. Se Kapur illustrava alla grande una storia ben nota ma certo non personale e Tarsem – visivamente arditissimo – un pasticcio scombinato se non adirittura stupido, Shaylaman invece rivela doti di narratore fantastiche. Bruce Willis è un uomo che non può ferirsi nè ammalarsi in alcun modo; Samuel Jackson invece soffre di una malattia alle ossa che le rende fragilissime ma vuole aiutare Willis ha scoprire la sua vera natura. Il montaggio è tutt’altro che frenetico ed i colori prevalenti sono blu e verdi scuri, intonati alla abissale tristezza che circonda il personaggio di Bruce Willis, che per buona parte del film pare uno zio Fester abbacchiato (ma questa non è una critica! Willis è ottimo, come pure Samuel Jackson): quando compaiono colori più vivaci, in particolare il rosso, c’è sempre un buon motivo. L’unica obiezione che mi sento di poter fare è sull’eccessiva lentezza della prima parte. Anche nel Sesto Senso il ritmo era lento ma serviva perfettamente una idea centrale semplice ma capace di reggere tranquillamente la storia. In questo caso, invece, la storia è relativamente più complicata e meno ovvia e la lentezza rende più difficile entrarvi, almeno nel primo tempo. Ma è una differenza minima – il film regge lo stesso alla grande, solo mi è parso meno perfetto del Sesto Senso. In Unbreakable vi sono meno shock emotivi ma questo è dovuto alla originalità della storia ed alla necessità di esplicitarla. In compenso la sorpresa finale è decisamente più imprevedibile. Molti temi ritornano: il bambino molto somigliante a Haley Joel Osment e che deve reggere un forte peso emotivo, la Philadelphia operaia, le abitudini americane che sembrano divertire il regista indiano (che vediamo come spacciatore allo stadio). Il tema nuovo è quello dei fumetti e della loro capacità di produrre mitologie ancor più forti e feconde del cinema stesso, almeno per certe persone – motivo che secondo me spiega i frequenti fallimenti delle trasposizioni di fumetti sul grande schermo. La scena più tremenda: quando Jackson cade lungo le scale metalliche della metropolitana, lungamente e dolorosamente, facendoci sentire ogni singola frattura. Altro grande momento è quando Willis esce dall’ospedale, unico superstite senza un graffio di un disastro ferroviario e tutti i parenti dei morti lo fissano.

Stefano Trucco

Recensione n.2

David Dunn (Bruce Willis), unico sopravvissuto di un disastroso incidente, viene contattato da Elijah (Samuel L. Jackson), strano appassionato di fumetti che soffre di una rara malattia che rende fragili le sue ossa, che gli fa notare alcune strane coincidenze del suo passato, come il non essersi mai ammalato. é bello vedere come a Hollywood siano arrivati registi capaci di realizzare film insoliti ed innovativi. In questo M. Night Shyamalan può essere accostato all’altra grande rivelazione degli ultimi anni, David Fincher: entrambi i registi hanno preso un’icona del cinema commerciale trasformandola completamente (Brad Pitt per Fincher, Bruce Willis per Shyamalan), entrambi basano i film su colpi di scena ad effetto (inseriti comunque in una sceneggiatura complessa e non banale, e non come eventi fini a se stessi), ed entrambi hanno rivoluzionato la narrazione di stampo classico dei blockbuster hollywoodiani. Le similitudini però finiscono qui perché Shyamalan, al contrario di Fincher, predilige un tipo di narrazione molto lento e realizza i film (regia e sceneggiatura) interamente da solo, riuscendo nell’intento di svecchiare i generi pur restando all’interno del sistema, senza prendere posizioni di tipo apertamente anarchico come a volte fa il regista di Fight Club. Unbreakable é un film eccezionale, una rivisitazione del fumetto supereroistico visto da un punto di vista quotidiano, sulla scia dei “Realworlds” di recente pubblicazione da parte della DC Comics e in linea con il rinnovamento del genere operato da Alan Moore negli anni ’80. Tutto é perfetto, e anche le presunte forzature della trama si devono in realtà ad un impianto filosofico solidissimo, che vede nel supereroe (e nella sua nemesi, perché un supereroe per avere una ragione di esistere deve per forza avere dei nemici a cui opporsi) non una persona che acquisisce poteri in seguito a motivazioni più o meno strampalate, ma un vero e proprio predestinato, qualcuno che viene “scelto” dal destino per riempire un vuoto della società. Un punto di vista totalmente inedito per il grande schermo, in cui l’eroe non é importante per le azioni che compie, per le vite che salva, ma in quanto eroe tout court. Peccato però per un piccolo difetto, spero imputabile alla cattiva traduzione italiana: più volte Elijah cita i fumetti, riferendosi in realtà non ai fumetti tout court ma ai soli fumetti supereroistici; é una sineddoche imperdonabile, un evento improbabile, anche in una società semplicistica come quella americana, che un vero appassionato di fumetti parli in questi termini, dimenticando tutto quello che c’é stato prima (e dopo). E peccato, soprattutto, per tutte quelle persone che, non conoscendo per niente il mondo del fumetto, non potranno cogliere le mille sfumature di questa splendida pellicola.

Graziano Montanini