C’è un arcobaleno nel cielo di ogni esistenza che, raggiante, illumina ogni evento che scorre al di sotto di esso, nella piena di esperienze che tutti viviamo, e ne accentua i colori, ne attenua il grigiore: questo arcobaleno, vive nel sorriso della propria partner o consorte, nella dolcezza dello sguardo dei propri figli, nel calore che entrambi sanno darci e nella consapevolezza che la nostra vita è la loro. Questo è “The Family Man”, commedia americana che vede protagonista Jack Campbell (Nicholas Cage), un importante uomo d’affari della “Grande Mela” , catapultato, la notte della vigilia di Natale, in una vita “possibile”, quella che lo vede sposato con figli.
L’inizio è realmente poco incoraggiante. Assidua, fino a raggiungere il fastidio, la parte iniziale, fatta di botta e risposta fra i personaggi, nel tentativo mal riuscito di presentare la scena con un ritmo alto e cadenzato. Il risultato è un continuum asindotico di battute pescate fuori dal cilindro della banalità, che fanno subito pensare al solito filmetto senza né capo né coda. Cage, dal canto suo, ce la mette tutta per tentare di recitare come peggio può (non deve neanche fare molta fatica a giudicare dall’iniziale monoespressività costante del volto ), supportato da una sceneggiatura da far accapponare la pelle. Superato il traumatico inizio, il film tenta (ed in parte ci riesce) di scivolare via liscio, recuperando qualche granello di dignità nei dialoghi ed entrando nel vivo del racconto. “Sliding Doors” si affaccia sull’uscio della trama ed offre lo spunto per sviluppare il tema del film, Cage comincia ad abituarsi a vestire i panni dell’attore ed il film inizia ad acquistare colore. Un colore sfumato, ma sempre più definito ed intenso, man mano che il racconto si sviluppa; il ruolo di marito da possibilità ed adeguamento passa a realtà: la routine familiare versus l’imprevedibilità degli affari, il limitato budget di famiglia contro l’indefinita disponibilità di denaro, la monogamia più totale sulla completa libertà sessuale…, mano a mano, infatti, diventano sempre meno “fatiche” e sempre più “pilastri portanti di vita”, che porteranno alla consapevolezza che se si possiede tutto, tranne l’Amore di un/a partner e/o di qualche pargoletto da cullare, non si possiede nulla.
Poco importa se a farne le spese sono poi gli istinti egoisti e di gloria che il lavoro ed il denaro spingono a provare, poiché questi vengono risolti nell’antitesi del focolare domestico, vero fulcro dell’equilibrio individuale, portando alla sintesi dell’appagamento e della restituzione di senso d’ogni cosa. La frenesia di affermarsi nel lavoro e tutto ciò che gira intorno ad esso, scardinano le coordinate dimensionali di ciò che ci circonda, facendoci apparire tutto come un flusso indistinto quanto inconsistente di tempo, in una libertà effimera che privilegia l’immediata, ma allo stesso tempo fuggitiva, appagamento del piacere, in attesa di un piacere, un successo, sempre maggiore. La famiglia è fatta anch’essa di tensioni e sacrifici, ma supportati da una base di Amore, nella quale queste vengono assorbite. Ecco allora che, se filtrate, queste assumono una durata, un intervallo di dolore tra un piacere e l’altro, un piacere conquistato.
Questa la tematica, abbozzata molto semplicemente da una gradevole commedia, seppur, come detto, adombrata dal terribile inizio, dal quale con fatica per tutto la sua durata essa tenta di venire fuori, riuscendoci solo quando è la tematica stessa a prendere le redini del gioco.
In sostanza un inno non patetico ad una vita anonima, da soggetto di periferia, routinizzato quasi all’estremo, ma contento, felice, per essersi liberamente gettato tra le braccia dell’Amore.
PS: Un consiglio: se credete di avere al vostro fianco la donna della vostra vita, correte a vederlo insieme a lei. Non potrete, a film concluso, non baciarla appassionatamente, felici di ciò che la vita vi ha dato.
Francesco Rivelli