Recensione n.1
A un presente in bianco e nero, dove in un piccolo villaggio cinese fervono i preparativi per un funerale, si alterna un passato colorato, in cui i ricordi ricostruiscono la nascita di una storia d’amore. In fondo “La strada verso casa” non si discosta molto dal precedente “Non uno di meno”, dove Zhang Yimou raccontava l’ostinazione di una ragazzina per il compito che le era stato assegnato di maestrina della scuola che non doveva perdere nessun alunno. In questo caso l’ostinazione della protagonista e’ nei confronti del sentimento che prova verso il giovane maestro del villaggio. Un’amore forte, sicuro e determinato che la porterà a un risultato di quarant’anni felici di matrimonio e ad un figlio che vive lontano, in città. Nonostante il tema forte e la capacità del cinema di rendere giganti le storie grazie alla valorizzazione del dettaglio, Zhang Yimou non riesce a rendere epico e universale l’amore raccontato.
Se i protagonisti fossero Richard Gere e Winona Ryder, il rapido commento sarebbe “la solita polpetta”, ma bisogna riconoscere al regista la capacità di filtrare una classica storia polpettona attraverso le radici della sua cultura. Ed e’ bello riscoprire piccoli gesti quotidiani dimenticati nella fretta a cui siamo abituati, come la cura meticolosa con cui Lou prepara il cibo per il suo amato o la paziente attività dell’uomo che gira per il villaggio riparando cocci. Il cinico occidentale apprezza la semplicità dei gesti, la riscoperta del silenzio, la dolce determinazione della protagonista, ma fatica un po’ a lasciarsi andare a un amore che diventa l’unica alternativa a una vita a fare ravioli accanto alla madre cieca. E il tono enfatico con cui l’amore descritto viene esaltato, sottolineato da una colonna sonora un po’ ruffiana, non fa che aumentare il cinismo occidentale. Sarà questione di fatica ad entrare in una cultura diversa, ma il taglio in fondo poco problematico e soprattutto celebrativo con cui Zhang Yimou descrive un amore, non riesce mai a diventare struggente e la potenza del cinema scivola via con i titoli di coda.
Luca Baroncini de “Gli Spietati”
Recensione n.2
Una lacrimevole ed esasperatamente romantica storia d’amore, di quelle raccontate sulla carta dei cioccolatini, fornisce il pretesto per la costruzione di un bellissimo film, dai contenuti precisi e decisamente più seri della pur tragica vicenda sentimentale.
Ancora una volta la campagna, ancora una volta la cieca presunzione di una potente oligarchia, ancora una volta l’importanza dell’istruzione per liberarsi dal giogo. Zhang insiste sulle tematiche che evidentemente rappresentano a suo parere il male della Cina moderna, e lo fa in modo da liberarsi elegantemente dal filtro censorio del potere, che evidentemente non è così efficace da arrivare a punire le intenzioni nè i sottintesi.
Quello che ci viene proposto in primo piano è una rappresentazione della tradizionale cultura delle campagne, ma oltre il paravento, senza essere per altro troppo nascosto, emerge il malessere di una società che si è evoluta senza dare troppo peso all’importanza della cultura. L’intreccio dei tempi visivamente ben delimitati finisce per fornire un quadro piuttosto chiaro della vita agreste di questo grande paese dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, sottolineando molto chiaramente come ai contadini cinesi l’oligarchia dominante abbia da sempre fornito striminzite sovvenzioni mirate al miglioramento dei mezzi di lavoro e delle condizioni di vita, con un preponderante sbilanciamento sui primi, lasciando in secondo piano le altre e relegando al ruolo di Cenerentola l’insegnamento, la scuola. E’ questo il grande male della Cina moderna secondo Zhang, chi nasce al di fuori delle città è praticamente destinato al lavoro nei campi, ha uno spazio di scelta limitato sulla propria istruzione e si vede spesso negata o comunque fortemente osteggiata ogni velleità di miglioramento della propria cultura.
Tecnicamente la pellicola è un prodotto di ottima fattura, dona grande importanza al colore, sempre presente a rimarcare le diverse fasi della storia, i tempi, le stagioni e gli stati d’animo, in modo se vogliamo piuttosto infantile, ma proprio per questo incisivo e fortemente rappresentativo. Ad ogni cambio di colore della fotografia corrisponde una mutazione nella storia e nel suo sviluppo, come se il regista volesse condurci per mano attraverso questo moderno mondo antico, farci sentire con l’intensità delle immagini i mutamenti psicologici dei personaggi e l’influenza delle condizioni ambientali sul loro umore.
La strada attorno a cui ruota la vita di una caparbia contadina è la protagonista ufficiale del film, il paravento dietro al quale Zhang riesce brillantemente a nascondere le tematiche che vuole realmente esprimere, ricordando sotto molti aspetti le fragili forme cartacee che imprigionano la luce nelle tradizionali lanterne cinesi: in effetti questo film è proprio come una lanterna, che dietro ad un paravento semitrasparente e colorato nasconde la luce di una presa di posizione forte e decisa. Questo è il motivo per cui la fotografia supera nettamente in importanza regia e sceneggiatura, per mostrarci le immagini come filtrate attraverso un velo di carta colorata, a simboleggiare la necessità di ricevere il messaggio che si cela al di là della pura finzione scenica.
Sergio Acerbi