Recensione n.1
Provate a fare un esperimento: andate a vedere “Quills” di Philip Kaufman e raccontate poi il film a qualcuno. Vi troverete in una strana situazione dove gli eventi che narrate avranno molto più fascino ed interesse degli stessi eventi che avete visto rappresentati su grande schermo. Il periodo finale della vita del discusso De Sade, infatti, e’ descritto in modo calligrafico e dietro alla grande cura scenografica e al dettaglio dei costumi, ben poco dello spirito trasgressivo e della sensualità tentatrice del celebre marchese vengono comunicati allo spettatore. Di fatti ne accadono tanti, ma la progressione e’ piatta, senza spessore, e dicono molto di più le parole di alcuni dialoghi che non le immagini. Gran parte di questo effetto e’ dovuto alla costruzione delle scene, dove tutto suona falso, a partire dalle solite comparse sovraeccitate fino ad arrivare alla caratterizzazione di routine dei matti del manicomio, più fisica che psicologica, secondo uno stile di chiaro stampo hollywoodiano. Ma anche gli interpreti non sono a proprio agio.
Geoffrey Rush e’ molto convinto nell’immedesimazione con il protagonista, ma quella che ne viene fuori e’ un una sorta di macchietta in cui la trasgressione si riduce a una serie di sproloqui volgari e la tentazione, la seduzione, la sensualità, il gusto del peccato rispetto alla presunta morigeratezza dei costumi, restano un miraggio lontano. Anche Kate Winslet, nonostante le “phisique du role”, pare un po’ sperduta e meno convincente del solito. Forse il maggior difetto del film, però, e’ nel costante urlo con cui tutto viene raccontato, puntando più sull’effetto di certe situazioni, nelle intenzioni shockante, che sulle motivazioni dei personaggi. Resta quindi poco spazio per la sottigliezza e “bene” e “male” rimangono parole spesso citate nel corso della pellicola, ma con un effetto più alfabetico che disturbante.
Luca Baroncini
Recensione n.2
Piccola delusione questo QUILLS, film che avrebbe potuto rivelarsi un capolavoro e invece rimane fermo sulla soglia della mediocrità. L’Arte e la Natura umana vengono messe in ballo in questa girandola di provocazioni e inni al cattivo gusto, riflessioni anarchiche e nichiliste sulla Vita e sull’applicazione dei dogmi cristiano-cattolici su di essa. Il marchese De Sade, simbolo di ciò che i bigotti e ingenui moralisti religiosi considerano “follia”, è il perno centrale intorno al quale ruota quel paradosso continuo che è l’Uomo.
Viene composto così un quadro maniacale e ossessivo fatto di personaggi simbolici e di situazioni talvolta grottesche, talvolta tragiche, tutto appeso a un sottile filo di humour nero, quasi invisibile, che apre all’opera strade inaspettate. Così, il manierismo accademico di facciata si stempera in un susseguirsi di scontri verbali all’insegna del gusto per la provocazione, per la satira, per l’anti-conformismo. Un attacco spietato alla Società cattolica e alla sua ipocrisia, incarnata nel personaggio del direttore del manicomio (un grande Michael Caine), vittima di umiliazioni dissacranti, ma sempre pronto a reagire con la rozza asetticità della sua violenza moralista.
Si sprofonda nelle viscere infernali dell’Arte, nella sua origine naturale, dove il proprio concepimento dipende dal Contrasto, dall’Odio, dal Dolore, e dove il traghetto per l’Esistenza è la Morte. Tutto è Arte, l’Arte è Tutto.
Purtroppo il discorso è prolisso, discontinuo, con alcuni picchi (la sequenza dell’isteria collettiva, degna de I DEMONI di Ken Russell), ma molte cadute, spesso dovute alla regia pretenziosa ma intermittente di Kaufman. E’ evidente che il regista si prende troppo sul serio, calcando la mano su sequenze che, viste così, non si trovano in sintonia con il contesto. Una per tutte: l’amore necrofilo tra l’abbate e la lavandaia. Perde infine di credibilità nel finale, con una strizzatina d’occhio puerile e inutile, quando invece sarebbe stato meglio concludere più in fretta. E’ un film comunque forte di una potenza metafisica estrema, che disintegra le indissolubili rassicurazioni perbeniste e dilata le pulsioni più recondite della mente umana, con una brutalità gratuita ma indispensabile, senza eccessivi didascalismi nè inutili parossismi. Anche se, bisogna ammetterlo, si doveva osare di più, per rendere QUILLS un film veramente maledetto (e imperdibile).
Andrea D’Emilio