Recensione n.1

Non sempre lo spettatore è un buon critico.
La “Tigre e il Dragone” è il tipico esempio nel quale spesso ciò si verifica e che spinge una volta di più alla riflessione sul rapporto spettatore-film, di cui chi scrive ha già accennato precedentemente in un altro commento. Il film si presenta, grazie alle sue candidature all’Oscar, con il migliore degli auspici per un’ottima visione. E la visione è in effetti molto bella. Ammirevole è la grande padronanza della macchina da presa da parte del regista Ang Lee, con la quale osserva i dialoghi e racconta le scene di combattimento in modo molto personale, anche se, bisogna ammetterlo, costeggiando da lontano lo stile hollywoodiano. E’ difficile trovare nel panorama cinematografico di quest’anno un film così ben concepito sul piano formale. Gli sfondi paesaggistici e non della storia, in una Cina di un paio di secoli fa, ed i costumi vengono ben messi in scena, aggiungendo la buona esperienza maturata in pellicole americane dal regista, al filone tipico dei film cinesi di arti marziali. Dove invece viene ricalcato molto più fedelmente lo stile cinese è nel linguaggio, così distante da quello solito americano, imposto con strapotere dalla sua pluri-presenza sugli schermi, nel quale è espressa una componente importante del ritmo del film: blando, molto blando, troppo blando, anche per chi accetterebbe di tutto pur di trovare un’alternativa alla cultura hollywoodiana. In realtà, è necessario ammettere che i dialoghi vengono spesso spezzettati da scene dinamiche, tanto che il film, nella propria struttura ritmica, assomiglia molto ad una lampadina che alterna luce a buio: movimento e stato si avvicendano, intercalando i dialoghi blandi a furenti combattimenti. Tutto questo ci sta, anche nei momenti in cui il film si adagia sfiorando la sonnolenza, quello che non ci sta è ben altro.

Si propinava infatti in altri commenti (vedi “L’ultimo Bacio”) l’idea del bel film, il film che sa raccontare la propria storia, che non si limiti meramente a mostrarla, perché non sono affatto la stessa cosa. Si ricordava come un film debba coinvolgere, saper portare lo spettatore al di là dello schermo, nel mondo costruito dalla propria finzione, e non limitarsi a rimanere distante, come un vetrina fatta da bei manichini ben vestiti e magnifici sfondi. E poco importa se questa vetrina è splendida, perfetta in ogni suo particolare, perché per il passante resta e rimane pur sempre una vetrina, mentre lo scopo del cinema, come dell’arte in generale, è sempre stato quello di far “sentire” a chi l’ammira un’emozione, un’idea, come la sentirebbe se questa partisse realmente dal suo cuore. L’arte deve trasmettere con forza tutto ciò, non deve limitarsi a dipingere, scolpire, scrivere o rappresentare con la massima perfezione, perché non basta. Certo, la forma è un elemento importantissimo, fondamentale, ed è infatti questa che viene spesso premiata e valorizzata in cerimonie come gli Oscar, è a questa che sovente si riferiscono i critici cinematografici nel giudicare un film, ma l’altra faccia della medaglia è altrettanto essenziale. Per questo “La tigre e il Dragone” è una medaglia ad una sola faccia, sebbene la storia che sta dietro a cotanta perizia cinematografica prometterebbe molto, se solo fosse sviluppata con dovuto riguardo. La libertà, l’Amore mai dichiarato della coppia “più anziana”, quello più irrequieto della coppia più giovane, l’idea delle “tigri” e dei “dragoni”, sono temi che avrebbero molto da dire, ma rimangono nascosti (seppur si noti un timido, poco convinto, tentativo di valorizzarli) dietro quella patina che rende il film troppo distante dalla platea, figuriamoci dalla galleria, così che è il torpore ad aggirarsi come protagonista in tutto il racconto. Salvo le fiammate. Sì, perché le scene di combattimento, bellissime, sono veramente qualcosa di eccezionale, che nemmeno anni e anni di film cinesi del genere possono avvicinare. Matrix docet. Come delle fiammate, però, sono rapide e veloci e non possono niente contro tutto quanto le circonda. Si esce dalla sala con la sensazione di avere intravisto tra le righe una possibile bellissima storia, commovente e piena di passione, che in realtà però non è mai riuscita a venir fuori, a bucare lo schermo, come si direbbe in contesti televisivi. Tutta questa riflessione, ovviamente, è consapevole di essere solo una delle possibili riflessioni, conscia della propria soggettività; non si spiegherebbe altrimenti il grandissimo successo di pubblico ottenuto dal film.

Ciò che si è voluto sottolineare è, in generale, la marcata linea di confine che separa un film ben fatto (per i quali noi tutti aspettiamo le sentenze degli Oscar) da un bel film, poiché capita di sentire troppo spesso, che sulle ali della propria ignoranza, si commenti: “Se il film è candidato agli Oscar non può non essere un bel film!”. Lasciamo ai luoghi comuni il tempo che trovano e chi basa le proprie idee su di essi nel proprio brodo, consci che la visione di un film è tutta nostra, “personalissimamente” nostra, e lasciando ai critici il giudizio di premiare l’altra faccia della medaglia. Non sempre infatti (per fortuna) lo spettatore è un buon critico.

Francesco Rivelli

Recensione n.2

La Cina del XVII secolo, agli albori della dinastia Qing, attraverso l’estetica del futuro in grado di superare i limiti della gravità per permettere ai corpi di librarsi, finalmente liberi, in volo. E’ questa la sfida che affronta Ang Lee dopo il controverso “Cavalcando con il diavolo”: un “Ragione e sentimento” in versione “Matrix”. L’operazione, di indubbio fascino, risulta riuscita solo in parte. Se i combattimenti, coordinati da Yuen Wo Ping (lo stesso di “Matrix” e “Charlie’s Angels”) sono estremamente coinvolgenti e fluidi, il melodramma che ci sta intorno gira un po’ a vuoto, non riuscendo mai a catturare la complicità dello spettatore. La sceneggiatura, infatti, costruisce personaggi problematici, ma li risolve senza troppe sfumature trasformandoli in eroi di cartapesta, tanto abili nel combattere quanto noiosi nel rapportarsi tra loro. La giovane e bella protagonista, ad esempio, vuole trasformare la sua vita in un infinito combattimento per evitare gli obblighi di un matrimonio imposto, e nella pratica non ha mai un dubbio, mai un momento di sconforto, mai una debacle. E l’eroe invincibile risulta, oltre che poco credibile, anche poco interessante. Si, l’atmosfera e’ leggera, l’obiettivo sembra il puro divertimento cinematografico, ma le tutto sommato poco convincenti motivazioni dei personaggi non bastano per alimentare lo stupore. Curiosamente, la confezione impeccabile e la freddezza del risultato ricordano molto da vicino le sensazioni procurate dal precedente “Ragione e sentimento”, tratto dal romanzo di Jane Austen. Molto meglio la cattiveria di “Tempesta di ghiaccio”, la leggerezza di “Banchetto di nozze” e la semplicità di “Mangiare bere uomo donna”. Un Ang Lee sicuramente meno tecnologico ma più coinvolgente, capace ancora di emozionare raccontando una storia.

Luca Baroncini

Recensione n.3

Proprio mentre ha deciso di smettere i panni di valoroso eroe, a Li Mu Bai sottraggono la preziosissima spada Destino Verde che apparteneva al suo maestro. Decide di recuperarla e si ritrova faccia a faccia con l’acerrima nemica di sempre, Volpe di Giada. Ritmo da contemplazione, persone che volano o camminano sulle acque contro ogni legge di gravità, duelli in cima agli alberi di bambù, filosofia zen, senso dell’onore, amore e morte inestricabilmente uniti in una storia irreale ambientata in una Cina irreale: il taiwanese Lee torna, dopo anni di volontario esilio americano, nella sua terra con un omaggio ai wuxiapian (film di cavalieri erranti, ovvero avventure orientali di cappa e spada) con cui è cresciuto negli anni Settanta. Esaltato un po’ dovunque, ha già raccolto due Golden Globe e dieci nomination agli Oscar (solo quattro le statuette, tra cui quella per il miglior film straniero), ma di fatto per uno spettatore occidentale il tasso di rischio è altissimo: o ci si lascia cullare dalla musicalità delle immagini e rapire dalla potenza interiore degli scarni dialoghi o ci si annoia terribilmente. Anche sforzandosi, comunque, non si può non scontrarci con la freddezza della messinscena che non indulge allo spettacolo e con il senso che sia tutto un guazzabuglio di generi creato apposta per ingannare a meraviglia anche il pubblico (e la critica) d’Occidente. Lavoro massacrante per l’intera troupe, completamente guidata dall’esperienza e dal talento di Yuen Wo-Ping (già attivo per Matrix), coreografo delle scene di Ware Fu, tecnica utilizzata per i combattimenti aerei, con gli attori sospesi in aria con cavi di ferro poi eliminati al computer. Girato tra il deserto del Gobi e il sud della Cina nel corso di due anni (solo l’apprendistato degli attori ha richiesto sei mesi), è costato soltanto 15 milioni di dollari ed è tratto da un romanzo-fiume di Wang Du Lu. La scena sui bambù (che ha richiesto sei ore al giorno di riprese per due settimane) è un omaggio al film preferito di Lee, A touch of Zen. Magnetica fotografia di Peter Pau e colonna sonora new age di Yo-Yo Ma che suona antichi strumenti cinesi. In originale parlato in mandarino. Il titolo è un proverbio che significa “la tigre in agguato e il dragone nascosto” e allude alle verità celate dietro le apparenze. Da rivedere, anche se con estrema fatica. Altri titoli: Gua hu chang long, Wo hu chang long. AVV 120’ * * ½

Roberto Donati