La vera storia di una squadra di football della Virginia del nord, nei primi anni settanta, nel primo liceo a classi miste, nel senso che poteva essere frequentato sia dai bianchi che dai neri. Ci sono tutti i presupposti per un buon film di sapore antirazzista, didattico ed importante per una società di fatto multirazziale come quella moderna, oppure per un triste, sdolcinato e retorico film american style, eterna lotta del bene contro il male, sconfitta dei provocatori beceri e cattivi e trionfo dei bellissimi redentori, dai sorrisi smaglianti di bontà.
Purtroppo è la seconda ipotesi ad avverarsi, il film risulta un polpettone monocorde in cui tutti sono cattivissimi ma vivendo insieme diventano buonissimi, il bene trionfa, il male affonda, tutti sono sè stessi e lo dimostrano cambiando, tutti sono eroi del proprio cambiamento e l’eroe più di tutti è colui che attiva i meccanismi di trionfo del bene; banalmente un “Indipendence day” o “Armageddon” o similare senza neppure il conforto degli effetti speciali.
Il trionfo di una banalità assurdamente evidente è legato probabilmente al racconto già di per sé romanzato della vicenda da parte di chi ne fu protagonista, che invece di essere depurato dall’immancabile lirismo a cui tutti tendiamo idealizzando i migliori ricordi, ne risulta ulteriormente appesantito attraverso una sceneggiatura dai dialoghi adatti ad una soap opera delle più tristi produzioni low-low-budget.
La pellicola trasuda melassa condita con sciroppo d’acero da ogni fotogramma, tanto che si ritiene inadatta alla manipolazione da parte di proiezionisti con problemi di diabete, le situazioni si rincorrono telefonate come in un romanzo Harmony, la tragedia accessoria alla storia ci viene puntualmente rivelata al momento giusto, nel disperato tentativo di non far apparire troppo lieto lo scorrere della vicenda.
Denzel Washington è il solito buon attore, ma si trova dipinto addosso un personaggio eccessivo nella sua americanità, un allenatore-sergente dei marines-arrampicatore sociale degno del miglior edonismo reaganiano, con in fondo la consapevolezza di operare schierato dalla parte giusta, per il bene dell’universo.
Il football giocato, accessorio attorno a cui ruota la storia, ne esce acciaccato, compresso, ridotto a comparsa in fugaci immagini che non potrebbero nemmeno figurare tra gli scarti di Oliver Stone per “Ogni maledetta domenica”; il football vissuto assume connotazioni da caserma nella più triste caricatura mai vista della reale durezza del suo ambiente.
Un film già visto, assolutamente inutile.
Acerbi Sergio