Il cinema ha il grande potere di creare un punto di vista diverso rispetto alla realtà delle cose. Ecco quindi l’occasione di vedere l’impossibile entrando nella traiettoria del sudore sulla fronte di Brad Pitt in “Fight Club”, o nella camminata delle cimici sul cuoio capelluto ne “La città dei bambini perduti”. In altri casi, però, dall’infinitamente piccolo si passa all’infinitamente grande e il cinema permette di vedere due personaggi in lontananza, persi nel paesaggio, e di sentire distintamente cosa dicono, come nella passeggiata autunnale per Central Park tra Woody Allen e Juliette Lewis in “Mariti e mogli”.
Sono entrambi estremi di un mezzo espressivo che riesce, abbinando la fantasia e la tecnica, la’ dove i rigidi limiti imposti dalla realtà e dalle sue regole fisiche, falliscono. Ecco quindi l’orientale “Yi Yi”, premio alla regia al Festival di Cannes del 2000, che si inserisce in questa prospettiva attraverso la rappresentazione della ciclitàdella vita, con le sue stagioni e i suoi amori e disamori, da un punto di vista spesso distante che consente, non senza una certa fatica, di arrivare all’interno di sentimenti ed emozioni. La storia si apre con un matrimonio e si chiude con un funerale. In mezzo la quotidianità di un nucleo familiare di TaiPei. La narrazione procede seguendo un ritmo molto “orientale”, almeno nell’accezione occidentale del termine. Gli eventi, infatti, anche forti, si succedono in modo pacato e senza clamori, attraverso una messa in scena tanto semplice quanto attenta ai dettagli. Alla freddezza esteriore corrispondono moti interiori potenti, che il più delle volte restano inespressi. E la regia rispetta appieno questa interiorità soffocata, costruendo con grande cura intere sequenze dove i protagonisti diventano parte di un contesto che visivamente prende il sopravvento. Ecco quindi un’intensa confessione d’amore lasciata in sottofondo a una stanza in penombra, dove in primo piano c’e’ un letto mentre i protagonisti, di cui si intravedono solo le sagome, parlano sullo sfondo.
Se la scelta risulta stilisticamente interessante, anche per la sua poetica forza espressiva, arriva però al cuore dello spettatore con il filtro della razionalità e le tre ore di proiezione, pur lievi, hanno più di un inceppo nell’attenzione con cui si seguono gli eventi.
La sensazione e’ di entrare all’interno di un nucleo familiare con cui si entra in confidenza, ma alle cui vicissitudini si partecipa mantenendo comunque una certa distanza. Come se tra lo spettatore e lo schermo ci fosse un vetro sottile in grado di trasmettere immagini limpide trattenendone però l’emozione.

Luca Baroncini