Recensione n.1
Cos’e’ la normalità? Che storie racchiudono i volti che incrociamo distrattamente in città ordinate gravate da un cielo plumbeo? Che radici hanno le pulsioni dell’uomo? Qual e’ il limite da non oltrepassare?
Il film scritto e diretto da Michael Haneke racconta con rara efficacia il mondo interiore di una donna disturbata, in cui le costruzioni mentali diventano una gabbia dove l’unica via di fuga e’ l’estremo. Il solo modo per sentirsi davvero vivi in un universo dove la frustrazione ha sostituito l’ambizione. La protagonista e’ una talentuosa insegnante di piano che vive con la madre un rapporto morboso e conflittuale, dove le continue liti e riappacificazioni le permettono di riconoscersi in un ruolo, in fondo gratificante (anche perché riconoscibile), di donna soffocata e repressa. Quello che più colpisce e’ l’incolmabile distacco tra l’apparenza gelida della protagonista e il continuo fermento della sua mente, capace di arrivare a manipolare un aitante studente innamorato. E il torbido rapporto che si crea tra i due, risulta davvero potente nelle sue implicazioni psicologiche e nel percorso di lucida follia che ne deriva.
Difficile trasformare in immagini il buio di processi inconsci, ma Michael Haneke, grazie ad una messa in scena scarna ed essenziale, riesce nella difficile impresa. I lunghi piani sequenza in cui e’ scandito il racconto diventano quindi necessari per esplicitare l’invisibile e permettono allo spettatore di focalizzarsi su importanti dettagli, capaci di chiarire e motivare la dinamica psicologica delle azioni. Non mancano le sequenze forti e disturbanti, ma nulla e’ gratuito, ogni pugno nello stomaco e’ un ulteriore tassello in grado di districare la disturbata psicologia della protagonista.
Gran parte del merito e’ ovviamente della bravissima Isabelle Huppert, che sceglie l’ennesima sfida prestando il suo enigmatico ed inquietante carisma a un ruolo difficile e rischioso.
Il film pone molte domande, ma non risponde espressamente a nessun interrogativo. Suggerisce più che spiegare e produce un effetto quasi catartico nel suo mettere a nudo, in modo estremo, pulsioni umane. Pulsioni che, in diversa misura, ognuno di noi ha, ma che la razionalità consente di controllare, reprimere, oppure, nella maggior parte dei casi, riversare altrove.
Un film quindi spiazzante, crudele, necessario.
Luca Baroncini
Recensione n.2
Michael Haneke è un regista finito.
Dopo il debole “Storie”, ecco un altro clamoroso flop da parte del regista austriaco. E questa volta è una debacle totale.
Il pericolo che corrono i registi come Micheal Haneke è di incappare, prima o poi, nella strada del manierismo, per mancanza di idee o più semplicemente per auto-compiacimento, specialmente se sulle proprie spalle pesa l’eredità di un Capolavoro (“Funny Games”). E l’autore de “La pianista” sembra inevitabilmente diretto verso questa strada: probabilmente la mancanza di un vero talento narrativo (il suo cinema si basa principalmente su costruzioni teorico-linguistiche e metafore) ha finito per soverchiare ciò che di interessante e originale si era mostrato (appunto l’approccio teorico e distaccato da un contenuto provocatorio e malsano), evidenziando così le profonde lacune narrative che affliggono le due ultime opere. Ma da cosa deriva questa incapacità di “raccontare una storia”? E’ palese: da un narcisismo stilistico che ormai vieta ogni soluzione che possa essere al di fuori dello stile stesso. In poche parole: Haneke costruisce i film intorno a sé stesso, intorno al suo stile austero e compassato, prevalicando qualsiasi necessità puramente narrativa. E la cosa non sarebbe nemmeno tanto tragica, se solo fosse accompagnata dalla voglia, o dal piacere, o dall’arguzia, di una reinvenzione totale – ovvero ciò che rende davvero grandi i grandi Registi -. Ebbene in Haneke viene a mancare proprio questo. Il risultato è un film spocchioso e irritante, presuntuoso e fallace, ricco di inutili quanto sterili provocazioni (i film porno, le torture masochistiche, il rapporto con la madre, le televisioni continuamente accese), tanto che viene da chiedersi a quale pubblico si rivolgesse l’autore: a un piccolo gruppetto di critici? O alle borghesi novantenni bigotte che fumano col bocchino (ma tanto non si scandalizzano più nemmeno loro)?
Haneke inoltre non perde occasione di “mostrarsi”, per far vedere quanto è intelligente e intellettuale. Perciò mentre la Huppert spompina in rigoroso silenzio il suo allievo, noi assistiamo a un estenuante primo piano di quest’ultimo. Ma ciò che funzionava in “Funny Games” – per un gioco di immedesimazione che coinvolgeva lo spettatore -, non può funzionare in questo contesto – proprio perchè lo spettatore non sa con chi “schierarsi” -. Ed è qui che il film puzza di studiato a tavolino: come un piano programmato, “La pianista” scorre senza inceppi e senza sorprese.
Tutto quello che Haneke ci mostra è esattamente quello che ci si aspetta da lui. Non tradisce, non rischia, e non emoziona. Così quella che sembrava una delle più interessanti realtà del cinema dei nostri tempi, si rivela un regista-bluff che ha detto, già dopo qualche film, tutto quello che aveva da dire.
Andrea D’Emilio