Recensione n.1
Tratto dall’omonimo romanzo cult di John Birmingham, arriva sugli schermi italiani, E morì con un falafel in mano, opera prima del regista australiano Lowenstein, prodotta dal nuovo Re Mida del cinema italiano, Domenico Procacci, della Fandango film (L’ultimo Bacio).
Il film narra le vicende di uno spaesato Danny (Noah Taylor), aspirante scrittore sulla trentina. Le sue coabitazioni, fra Brisbane, Melbourne e Sydney, con individui regolarmente schizzati, la difficile relazione con l’amica amante Sam (Emily Hamilton), i rapporti complicati che intrattiene con dark lady mefistofeliche, neonazisti, poliziotti corrotti, gay desiderosi di uscire allo scoperto, aspiranti attrici di soap opera, tossicodipendenti, metteranno a dura prova la sua voglia d’affermazione e maturazione.
Il lungometraggio narrato per episodi non lineari, intervallato da citazioni tratte da film di Tarantino, Godard e autori della novelle vauge cerca di costruire un tortuoso percorso in un’Australia dura e uggiosa che non concede nulla alla felicità di chi la abita.
Girato quasi solo in interni, si offre come un on the road che sostituisce la staticità dell’abitare allo spazio in movimento della strada. Il cambiamento riguarda esclusivamente la coscienza del protagonista che cerca una sua profonda e tardiva maturazione.
La cosa che accomuna questa surreale opera di Lowenstein, all’Ultimo bacio di Muccino è l’attenzione verso la generazione dei trentenni che non vuole crescere. Il suo stile però guarda al cinema indipendente americano, al raccontare post-moderno delle Iene di Tarantino, alla visionarietà folle e border line del Danny Boyle di Trainspotting o al Singer di I soliti sospetti.
Gli ingredienti miscelati dal regista sono interessanti: la musica drammatica di Nick Cave, lo spaesamento consapevole del protagonista (bravissimo Noah Taylor), la destrutturalizzazione del tempo e dello spazio (dalla Nouvelle Vauge di Godardiana memoria), la sospensione del giudizio morale, ma qualcosa non torna.
Il suo film sembra ormai fuori tempo massimo, la capacità di stupire dell’opera post moderna autoreferenziale sembra aver segnato il passo e stancato lo spettatore. Forse il gioco è stato portato troppo avanti dai fratelli Coen, che dopo aver celebrato la fine del racconto e del raccontare filmico, hanno lasciato solo il nulla ai loro discepoli. Il lungometraggio si perde, non sembra aver mai la capacità di sintesi Tarantiniana o la cupa amara filosofia antisistema di un film come Trainspotting.
Non rimane che qualche personaggio azzeccato, e un’Australia come non l’avevamo mai vista al cinema, banale e inospitale fondale di rappresentazione del nulla contemporaneo.
Paolo Bronzetti
Recensione n.2
Sia il film che il libro (uscito per la prima volta in Italia nel 1997) mi sembra siano passati senza farsi notare troppo. Peccato. Il romanzo ricorda Generazione X, di Coupland, ma senza moralismi o sentimentalismi e con molta più volgarità. La vita nel sottobosco
alternativo australiano – tenuta insieme solo dal tema delle case in coabitazione – si snoda in una serie di vignette e personaggi ed episodi tenuti insieme dal ritmo e dall’umorismo a un tempo intelligente e volgare di Birmingham. Gli australiani danno una forte impressione di superficialità anche nelle loro opere migliori – questo non vuol dire mancanza di intelligenza, solo mancanza di storia. Al confronto gli americani ne hanno
fin troppa e le danno un’importanza sproporzionata. Comunque, il romanzo non ha trama. Il film ne costruisce una, rimescolando i vari aneddoti, creando personaggi compositi ed inventandone altri, attribuendo ad alcuni battute di altri e così via. In particolare da una personalità al narratore ed una storia d’amore che lo segue da Melbourne a Brisbane a Sidney (che scopriamo essere tre città molto diverse con personalità distinte). Per il resto, bel ritmo ed attori bravi. Si ride parecchio.
Curiosamente, il dettaglio più agghiacciante del film, il golf con i rospi, nel libro non c’è.
Il film è australiano ma è prodotto da Domenico Procacci (non solo distribuito). Questo forse spiega un particolare per altro inesplicabile.
Uno dei vari sballati accetta di far la vittima di un sacrificio umano simbolico da parte di un gruppo dark satanista. Lo vediamo nudo e ornato di nastri e corona di spine e la scritta ‘Porco Dio’ in italiano sulla schiena.
Stefano Trucco