Le contraddizioni dell’uomo portate alle estreme conseguenze. Danny Balint e’ un ragazzo ebreo che cresce in completa scissione tra la fede religiosa e la sua condanna. Entrambe le parti sono a tutto tondo e non accettano l’interferenza di sfumature. Molto ardua quindi la possibilità di raggiungere un punto di equilibrio. I conflitti interiori hanno accompagnato il cinema fin dalla sua origine, basta pensare allo sdoppiamento del mitico Dottor Jekyll in Mr. Hyde o, per arrivare a tempi più recenti, alla bellissima Kathleen Turner in “China Blue”, integerrima donna d’affari di giorno e prostituta estrema di notte. A differenza di questi esempi, in “The believer” la scissione del protagonista prevede la continua convivenza delle due opposte personalità. Il nazista e l’ebreo non si esprimono quindi separatamente e all’insaputa l’uno dell’altro, ma lottano incessantemente tra di loro.
Non e’ dato allo spettatore sapere cosa ha portato il giovane Danny Balint ha un odio così convinto nei confronti degli ebrei e il film, dopo un inizio che lascia sperare in un’analisi sulla difficile convivenza con una fede religiosa (o di pensiero), si sviluppa seguendo i binari standard del conflitto interiore senza vie d’uscita. Anche l’antisemitismo, quindi, diventa solo uno spunto, interessante per le problematiche che pone, ma mai risolutivo nelle conseguenze narrative. Nonostante un taglio visivo da cinema-verità (le solite sgranature, una luce naturale, la m.d.p. spesso a mano) il coinvolgimento e’ quasi sempre limitato, come se le cose accadessero attraverso un filtro in grado di renderle distanti.
Forse e’ proprio la combinazione tra un tema interessante e sempre attuale e un trattamento alla “personaggio disturbato” a non funzionare piu’ di tanto, ad impedire che i deliri del protagonista arrivino a scuotere le coscienze, a porre domande e a cercare risposte. La visione offre molti spunti, il protagonista Ryan Gosling e’ assai convincente, ma la visceralità del suo conflitto e’ sempre subordinata ad una verbosità più incline al “talk-show” che alla denuncia.

Luca Baroncini