Eccolo qui, l’ennesimo esempio di come si potrebbe agevolmente fare cinema in Italia, e non si fa per mancanza di… cosa? di talento? di volonta’ organizzativa? Mah. Comunque e’ ormai chiaro che i francesi hanno qualcosa in piu’ di noi nel loro sistema.
Il modesto operaio Pierre, felicemente sposato con Carole, viene spostato al turno di notte in fabbrica (il tre-otto del titolo originale). Prima ancora di capire che tipo e’ Pierre, scopriamo che non avra’ vita facile: nuovi compagni, nuovi scherzi, una certa intolleranza per il nuovo arrivato, un collega, Fred, che lo prende di mira. Lentamente, inesorabilmente Fred, disturbato, problematico, piccolo teppista cresciuto fino alle dimensioni di un culturista, sopraffa’ Pierre: gli affibbia nomignoli, lo bersaglia di motti e allusioni, lo molesta e lo umilia davanti ai compagni e perfino al figlio adolescente. Arriva a sopraffarlo fisicamente e a promettergli di picchiarlo di santa ragione. Pierre subisce e cova rancore e vendetta.
E’ allora che comprendiamo che Pierre è un debole fondamentale: la moglie ha un lavoro migliore, il figlio inizia a disprezzarlo, i suoi movimenti e le sue espressioni si fanno sconnesse e insicure; ogni notte al lavoro e’ una tortura, un tenersi continuamente alla larga dal compagno prepotente, un sorvegliarlo per evitare il contatto con lui. Pierre e’ un omosessuale represso, e Fred lo ha capito benissimo. L’omosessualita’ latente nella situazione sembra esplodere quando Pierre si abbandona a un gesto platealmente masochista, afferrare un oggetto rovente sotto gli occhi estasiati di Fred, per mostrargli quanto e’ bravo…
A proposito di omosessualita’ latente e ritualizzata mi viene in mente un gran bel film di qualche tempo fa di Claire Denis, “Beau travail”; mentre li’ tutto era puntato sulla bellezza delle immagini, sulla danza e sui gesti, qui la vicenda si risolve in modo pacato, ragionevole, “borghese”. Chi perde e’ Fred, ma Pierre non sara’ mai piu’ lo stesso di un tempo; come il Winston Smith di 1984 alla fine della tortura, adesso lui sa di essere vulnerabile.
Il film e’ profondamente metaforico. La fabbrica di bottiglie di vetro diventa un’arena: un microcosmo in cui il rumore, il calore, la fatica formano il branco. Pierre e Fred ricordano le coppie schiavo/padrone alla Fassbinder; qui il sentimento di inevitabile violenza misto all’attrazione e’ amplificato al massimo. Pierre evitera’ il disturbo mentale solo rivolgendosi alle proprie Madri, la vera madre e la moglie, confessando ogni cosa e facendosi da loro proteggere.
Ma e’ anche un bel thriller, con momenti di suspense vera e propria e un delineamento dei personaggi encomiabile — e non posso evitare di dire che l’attore che impersona Fred, Gerald Laroche, qua e la’ sembra proprio l’Anthony Perkins di Psycho; deve essere voluto, vista la spirale di follia in cui Fred sembra ad un certo punto precipitare.
Il regista Philippe Le Guay ingrossa la mia lista di belle scoperte francesi (Ozon, Cantet, Guediguian). Il film e’ bello, io ve lo consiglio.
Claudio Castellini