Recensione n.1

Gran Bretagna, primi anni ’30: sir William, un Borghese ricco diventato nobile per aver sposato la giovane consorte Lady Sylvia, organizza una battuta di caccia.
Per l’occasione invita a Gosford Park alcuni ospiti: un americano produttore delle pellicole di Charlie Chan, un ex-ufficiale economicamente a terra, un attore alla moda, un’anziana contessa dalla lingua tagliente, diversi giovani. Assieme a loro arriva una copiosa servitù capitanata per l’occasione dal discreto maggiordomo Jennings e dall’austera signora Wilson.
Fra ricatti, gelosie, vendette, l’eterogenea compagnia trascorre le giornate fra le convenzioni nobiliari e i più bassi istinti umani. Fino a che l’odiato padrone di casa viene ritrovato morto, con un pugnale nel petto…
Avevamo lasciato Robert Altman con qualche critica di manierismo fine a se stesso nel suo penultimo film il Dottor T e le donne, lo ritroviamo in una forma splendida nell’ultima opera Gosford Park.
Sicuramente anche in quest’ultima pellicola il carattere distintivo Ë la ricerca di un’elegante perfezione della messa in scena, ottenuta attraverso l’allestimento corale, l’incrocio di vite, di persone e personaggi, di destini e sentimenti. Il compiaciuto 75 enne sembra, questa volta, tenere maggiormente in pugno la scrittura cinematografica. Attraverso lo stile lascia filtrare prepotentemente la fine di un’epoca e le sue abominevoli disparità. Pone l’obiettivo sopra la deriva della moralità.
La forte invenzione del regista Ë il filmare la divisione del mondo in due.
Il mondo superiore Ë abitato dai padroni, mentre nell’inferiore vivono i servi.
Nei saloni pieni d’abbondanza e d’opulenza mostrata, s’ intrecciano i discorsi inutili e svogliati dei nobili. Ai piani inferiori i camerieri ed i valletti riproducono tra loro le gerarchie della nobiltà. Non riescono ad uscire dalla logica di classe loro imposta, si fanno specchio fedele delle violenze e delle amoralità della classe che li comanda.
Con gran classe, attraverso fluidi carrelli, la macchina da presa ricostruisce un mondo dove il classismo Ë l’unica fonte di sicurezza.
I camerieri sono persone trasparenti, invisibili per l’alta società, ma Altman Ë interessato all’esplorazione del loro mondo. Si permette di mostrare la doppia violenza che devono subire i subalterni dell’epoca: dopo i maltrattamenti dei padroni, devono sottostare alle maldicenze, alle delazioni dei colleghi.
Il regista riprende dalla Regola del gioco di Renoir il claustrofobico gioco al massacro nobiliare, e lo specchio drammaturgico dell’arte della rappresentazione. Aggiunge un estetica di genere, alla Agatha Christie, per poi dissiparla attraverso l’ironico personaggio del poliziotto di Scotland Yard, l’unico che non scoprire mai la verità. Quello che realmente interessa ad Altman Ë il vagare morbidamente dentro uno spazio chiuso, che offra alla sua arte filmica la possibilità di sezionare i contrasti fra gli oppressi e gli oppressori, senza dimenticare le ambiguità e le attenzioni per il particolare.
La macchina da presa si muove agile, sbeffeggia con vigore i vizi di una società al tramonto, lasciando intendere che quello che viviamo oggi non è molto diverso. L’obiettivo non Ë puntato sul funerale di un’epoca ma sulla sua trasformazione/mutazione. Dalla futilità dei nobili, dei possidenti, alla grossolanità dei borghesi e del mercato.
Il grande vecchio del cinema anti-hollywood non nasconde la simpatia per i subalterni. Ironizza sul mondo chiuso dei padroni trovando ispirazione anche dal maestro antisistema per eccellenza Louis Bunuel. Ritrova la capacità di unire l’eleganza della confezione all’incisività della stessa, creando un corpus drammatico eccezionalmente compatto, che offre solo dialoghi perfetti per le corde dei bravissimi interpreti. Da non perdere.

Paolo Bronzetti

Recensione n.2

“Quel che resta del giorno” incontra “Dieci piccoli indiani” e ne viene fuori un “Invito a cena con delitto” dove alla risata si sostituisce un sorriso beffardo. Citazioni non necessarie a parte, Robert Altman costruisce un piccolo gioiello, dove la storia gialla e’ un pretesto per raccontare gli inconciliabili conflitti sociali tra l’aristocrazia inglese del 1932 e la parte bassa della scala sociale, rappresentata da un mondo sommerso di servi, valletti, camerieri e cuochi. Ne esce un quadro poco rassicurante, ma stemperato da una sottile e coinvolgente ironia. Come suo solito, Robert Altman basa la propria visione sulla coralita’ e riesce, nonostante i tanti personaggi, ad attribuire ad ognuno una personalita’ ben definita attraverso poche battute. Non a caso, nelle interviste, spesso dichiara che cio’ che piu’ lo interessa del cinema, non e’ tanto la storia, quanto l’insieme e l’interazione, come in un dipinto, tra i vari elementi che si avvicendano sulla scena. Fortunatamente ha a disposizione una sceneggiatura ben calibrata e un gruppo di attori perfetti nelle singole caratterizzazioni. Strepitosa Maggie Smith, che con impeccabile “aplomb” inglese, sputa acide sentenze su chiunque le capiti a tiro. Uno di quei personaggi che nella vita reale si odierebbero ma che il cinema consente di amare. Nonostante una prima parte in cui non accade quasi nulla di rilevante, non si vive mai l’attesa del delitto, ma si partecipa con entusiasmo ai continui scambi di felici battute, necessari per capire i ruoli dei tanti personaggi. Ad entrare nell’atmosfera aiuta anche la meticolosa cura scenografica, valorizzata da una regia attenta ad ogni minimo dettaglio. Il dietro le quinte dei salotti mondani e’ reso con grande efficacia e una volta tanto lo spettatore non e’ coinvolto da un amore impossibile tra due statuine sfacciatamente belle e ricche, ma ha modo di capire cosa nascondono le pieghe sberluccicanti degli abiti da sera. Lo sguardo “alto”, infatti, e’ affiancato da un piu’ illuminante sguardo “basso”. Ma a Robert Altman non sembra interessare giudicare i personaggi o insegnare una facile lezioncina in cui l’apparenza inganna e poverta’ di mezzi equivale a ricchezza di cuore (e viceversa). “Gosford Park”, infatti, mostra personaggi sfaccettati in entrambe le categorie sociali. La critica del regista sembra piu’ vertere su un modo di incasellare la vita, riconosciuto sia dai servi che dai serviti, dove le etichette annullano la persona, la competitivita’ si esaurisce nell’ostentazione, il potere e’ legato al possesso. Ma sia la parte alta che quella bassa della scala sociale ne sono portavoce e lo spettatore, unico testimone di tutti gli avvenimenti raccontati, diventa depositario della soluzione di un mistero che sembra non interessare nessuno dei personaggi. Uno sguardo cinico, quindi, ma lucido, incisivo e lungimirante, lontano dai compromessi che spesso, al cinema, trasformano la vita in mera illusione.

Luca Baroncini