Recensione n.1

In tempi di cecchini impazziti che terrorizzano l’America, il documentario realizzato da Michael Moore e’ quanto mai attuale. Il regista (gia’ noto per un precedente documentario, “Roger & Me”, sui licenziamenti della General Motors a Flinth in Michigan) scava con arguzia nei meandri oscuri dell'”american way of life” cercando di capire cosa porta, o ha portato, un paese a detenere il record delle uccisioni per arma da fuoco. Le cifre parlano chiaro, ben 11.000 gli omicidi in un anno e ben 250 i milioni di armi nelle case degli
americani. L’ovvia correlazione tra diffusione non controllata di pistole e fucili e omicidi viene messa in discussione attraverso il confronto con il confinante Canada. Abitudini non troppo dissimili, ma un numero molto inferiore di delitti. Cos’e’ allora che differenzia l’America?
Michael Moore cerca di farcelo capire attraverso un’indagine approfondita e documentata, solo in pochi casi un po’ approssimativa (esperienza personale, in Canada c’e’ anche chi chiude le porte a chiave!). Lo spunto di partenza e’ la strage alla Columbine School in Colorado, dove nel 1999 due ragazzi hanno massacrato dieci studenti e un professore per poi suicidarsi. Ma il documentario spazia a tutto campo sull’argomento, alternando interviste e manifestazioni pro o contro le armi, alla descrizione di abitudini ormai consolidate nella vita quotidiana. Il taglio e’ beffardo, caustico ed incisivo. Vediamo cosi’ la North American Bank che regala fucili a chi diventa correntista, madri che pensano attraverso la difesa personale di garantire il futuro dei figli, pallottole vendute senza alcun controllo nei supermercati. Una breve intervista a Marilyn Manson, accusato dai mass-media di istigare alla violenza, lo rivela meno mostruoso di come appare, mentre il famoso Charlton Heston, presidente della National Rifle Association, esce con le ossa rotte da un confronto con Michael Moore, in cui alle domande precise del regista non riesce a dare che risposte retoriche e prive di concretezza. Tra i momenti piu’ folgoranti, il riepilogo delle connivenze americane con regimi dittatoriali e sanguinari sulle note di “What a wonderful world”, cantata da Louis Armstrong, e un formidabile cartone animato che spiega con ironia cio’ che differenzia l’America dal vicino Canada e dal resto del mondo: un’atavica e indistinta paura, purtroppo ingigantita dai media che diventano i principali responsabili di una strategia del terrore finalizzata al controllo dell’individuo.
L’attualita’ continua a ricordarcelo attraverso la pianificazione di guerre preventive che nascondono quasi esclusivamente interessi economici. Ma i media non demordono e, anzi, insistono: paura del vicino di casa, paura in strada, paura a scuola, paura al supermercato, paura in vacanza, paura ovunque. Il fatto che i casi di cronaca nera siano diminuiti, ma sia maggiore lo spazio che hanno nei mezzi di comunicazione, dovrebbe farci riflettere: forse c’e’ chi vuole farci vedere le cose in un unico modo. Davvero tanti quindi gli stimoli offerti dalla visione del documentario. Oltre al risultato, sicuramente illuminante ed efficace, sarebbe stato interessante capire come Michael Moore sia riuscito ad ottenere alcune dichiarazioni. Le interviste erano accordate o spontanee? L’operatore era in alcuni casi invisibile (tipo “Le iene” per intenderci)? Le liberatorie di chi e’ stato filmato sono state firmate senza problemi? Domande senza risposta che non inficiano certo la visione ma lasciano un sospetto (ahime’ legittimo) sulla totale veridicita’ di quanto proposto. In ogni caso ammirabile l’impegno in prima persona del regista americano per un mondo migliore.

Luca Baroncini

Recensione n.2

Stati Uniti, 1999. alla Columbine School due studenti armati sequestrano l’intera scuola e uccidono 12 ragazzi, per poi suicidarsi. Da questo avvenimento, e dalla passione degli studenti per il bowling nasce il titolo dell’ultimo splendido documentario di Michael Moore, già regista di Roger and me. Il caso di follia non è isolato; negli stati uniti ogni anno muoiono più di 11.000 persone per armi da fuoco.Armi che come mostra il nostro simpaticissimo regista non è difficile procurarsi; vengono addirittura regalate nel monumento in cui si pare un conto corrente. Egli stesso riceve in dono un fucile, dopo aver aperto un conto corrente. Questa sequenza, che ha dell’assurdo, apre l’intero documentario, che si snoda attraverso due ore di proiezione che lasciano sempre avvinto lo spettatore. Il nostro regista, cappellino in testa, metà comico degli anni trenta, metà fratello del Grande Lebowski, compie un viaggio attraverso il mondo del commercio delle armi negli Usa. Bossoli venduti nei supermercati ai ragazzini, cani con un fucile legato, giochi di guerra che coinvolgono famigliole al sabato pomeriggio rappresentano un freak show dei più inquietanti visti ultimamente. E tutto sotto l’egida delle leggi di un paese che si fa difensore dei diritti umani. La narrazione di Moore si snoda attraverso momenti irresistibili; il cartone animato sulla storia degli Stati Uniti i cui autori sono gli stessi di South Park mostra come a fondare questo ridicolo stato siano stati puritani intransigenti ed avanzi di galera.
Una nazione sotto tiro come recita il sottotitolo del film, che è sempre vissuta sulla paura dello straniero. Non a caso Moore mostra come i telegiornali ogni giorno mostrino sempre avvenimenti spaventosi, rapine, catastrofi naturali. Ed autori dei crimini, chissà perché, sono soprattutto persone di colore. A proposito, ad un certo punto si parla di fantomatiche api assassine, che provengono dall’Africa. Niente commenti.
Un altro momento esilarante è costituito dal montaggio della sequenza dei dittatori favori dagli Usa con in sottofondo What a wonderful world di Armstrong. Tra i partecipanti alla sfilata Bin laden e Ussein. Anche qui meglio il silenzio.
Nel suo viaggi tra gli orrori Moore incontra anche Charltron Heston, presidente del NRA, l’associazione che propugna l’utilizzo e la detenzione delle armi. Egli organizza sempre le sue convention nei luoghi dove ci sono stati fatti di sangue . Prima a Columbine e poi nella città di Moore dove un bambino di sei anni ha ucciso con la pistola una sua compagna. Heston riceve Moore e lo tratta gentilmente. Si appella ad un articolo della costituzione che autorizza ad avere un arma per difesa. Ma al momento in cui Moore mostra la foto della bambina morta, egli fugge non riuscendo a parlare.
Moore ha costruito dunque un ritratto molto fedele di questo paese, che sembra non ancora uscito dall’età mentale di un dodicenne. L’età in cui si gioca ai fucili appunto. Guardandolo si perde la voglia di visitarlo. Per conoscerlo come diceva il buon Peckinpah basta fare un salto a Disneyland.

Mauro Madini

Recensione n.3

Il 20 aprile 1999 due diciassettenni, studenti della Colombine High School, entrano a scuola armati, uccidono dodici compagni, un’insegnante e poi si tolgono la vita.

Questo fatto di cronaca è il trampolino di lancio che spinge Michael Moore a fare tutta una serie di considerazioni sul perché, nel paese più democratico del mondo – come direbbe qualcuno -, è cosi facile premere il grilletto.
Il film è stato premiato a Cannes, nel 2002, ma non ha avuto molta risonanza, forse perché si tratta, più che di un film, di un documento che mostra quanto c’è di violento nella cultura americana.
Moore si chiede semplicemente perché gli Stati Uniti detengano il primato mondiale degli omicidi da arma da fuoco, e le sue risposte sono veri e propri colpi di pistola!… Questo film fa riflettere su molti dei comportamenti tenuti dagli Stati Uniti… anche da un punto di vista politico.. In America è troppo facile procurarsi delle armi da fuoco, ma la cosa sconcertante è che i mass media americani bombardano il pubblico di notizie spaventose, creando un costante stato d’ansia e di paura che, conseguentemente, porta a commettere gesti poco appropriati alle situazioni.
La domanda più frequente di Moore agli intervistati è “perché tieni possiedi un’arma da fuoco?” e la risposta è sempre la stessa: “per proteggere me e la mia famiglia”.
Effettivamente, anche in Canada c’è un’alta percentuale di persone che possiedono armi da fuoco, data la tradizione da cacciatori dei canadesi, ma non c’è la stessa percentuale di omicidi, anzi, i canadesi sono così tranquilli da lasciare addirittura la porta aperta di notte!!
Come Robin Hood, Moore toglie ai ricchi per dare ai poveri: grazie alla sua abilità registica, beffeggia i più potenti, come Charlton Heston o gli ultimi tre presidenti, ma soprattutto gli esperti di telecomunicazioni (“discutere problemi seri non fa audience”); però dà spazio a gente a volte diffamata, come Marilin Manson, spesso accusato di essere generatore di rabbie e violenze nelle menti dei giovani. Di fatto è proprio Marilin Manson il primo capro espiatorio dopo la sparatoria alla Colombine (gli assassini erano suoi fans..) .. e invece é proprio la voce dell’anticristo a pronunciare la frase più bella del film: “cosa direi ai sopravvissuti della Colombine? Non direi proprio niente, starei piuttosto ad ascoltare quello che hanno da dire loro, cosa che nessuno ha ancora fatto.”
Moore fa parlare anche Matt Stone, l’ideatore di South Parck, che fra l’altro è della stessa piccola cittadina americana del regista, cittadina dove pochi mesi prima un bambino di sei anni ha ucciso una sua compagna di classe. Si pensa che il bimbo abbia trovato la pistola a casa dello zio, ma se la madre (una giovane donna nera, senza marito) non avesse dovuto stare lontana dal figlio così tanto tempo, per andare a guadagnarsi il pane, probabilmente il piccolo non sarebbe diventato un assassino… Lo stesso giorno della tragedia alla Colombine, c’è stato uno dei più massicci bombardamenti da parte degli Stati Uniti ai danni del Kossovo… Consiglio a tutti di vedere assolutamente questo film!

Giuditta Martucci

Recensione n.4

Dopo Roger & me, Michael Moore torna al documentario e, tozzo e sempre in scena, presenta, all’indomani della strage del 20 aprile 1999 occorsa nel liceo Columbine nel Michigan, un’altra immagine disperatamente ironica (o ironicamente disperata) della sua America e della sua città di Flint: a partire dall’indagine della vendita facile di armi da fuoco nel suo paese (il film inizia con Moore che va ad aprire un conto corrente in banca e riceve in regalo un fucile), il documentarista si interroga sul perché l’America è il paese che vanta il maggior numero di morti per arma da fuoco. La risposta arriva dopo due ore di intelligenza documentaristica (Moore alterna divertenti animazioni – come quella sulla “breve storia degli Usa” – interviste – dal capro espiatorio Marilyn Manson all’illustre membro della National Rifle Association Charlton Heston passando per molti altri – spezzoni di repertorio, spot di produttori di armi, ecc.), di irriverente satira populista, di abilità creativa (uso di vari materiali, utilizzo della colonna sonora e di canzoni celebri) e di acuta penetrazione socio-psicologica di un paese e di una cultura: l’America è un paese che è vissuto e vive sempre e costantemente nella paura (dell’altro, di sé stesso) che quindi, a livello concreto, si traduce in odio. Un documento necessario perché, quasi da intellettuale europeo super-partes, Moore non critica l’odio che alimenta gli americani con altrettanta rabbia sopita, ma con affabile e decisa insistenza, con la ricetta della cortesia e della scomodità. E perché non fa dell’11 settembre 2001 un momento di risveglio e di elogio della coscienza nazionale. Sebbene il doppiaggio sovrapposto (in sottofondo si sentono le voci originali delle persone) non sia disdicevole, era un film assolutamente da non doppiare perché anche la lingua americana e il suo modo di essere pronunciata era un altro importantissimo fenomeno sociale per comprendere la vera realtà degli Stati Uniti d’America. Vincitore di molti premi, consacrato come miglior documentario di tutti i tempi e nominato per la Palma d’oro a Cannes (in 46 anni è stato il primo documentario a competere per il premio più ambito). Come dicono i titoli di coda, è possibile contattare i realizzatori del film sul sito www.michaelmoore.com (l’e-mail personale del regista è mike@michaelmoore.com). La casa di produzione di Moore si chiama Dog Eat Dog Films: lampante, no? BN/COL DOC 120’

Roberto Donati