Olivier lavora come falegname in un centro di recupero per ragazzi disadattati, un giorno gli viene assegnato come apprendista Francis. Egli lo accoglie con molta inquietudine, continua a seguirlo, lo scruta continuamente. Un terribile segreto lega questi due personaggi che sembrano così distanti…
Dopo La promessa e Rosetta, i fratelli Dardenne ci regalano un altro magnifico film. Al centro della trama c’è come nei film precedenti il mondo del lavoro. Un lavoro profondamente legato alla materialità come quello di Olivier, fatto di rumori di assi, di trucioli di legno che sporcano continuamente gli abiti. Ma anche fatto di misurazioni precise, costruito sull’impossibilità di compiere errori. Le misure continuamente nominate nel film contrastano con l’incommensurabilità del dolore di Olivier. Difatti il ragazzo ha ucciso suo figlio durante un tentativo di rapina, e ora si trova faccia a faccia col padre. Un altro dolore si aggiunge a questo; la moglie da cui si è separato dopo la morte del bambino, aspetta un figlio. La paternità di Olivier quindi viene doppiamente negata, dalla morte e da una nuova nascita. Forse l’unico modo per poter combattere questa solitudine è paradossalmente quello di adottare Francis.

Olivier si trova davanti ad un bivio; far pagare al ragazzo la sua colpa o perdonarlo. Il dilemma si protrae per tutta la durata del film. A significare l’oppressione di questo dilemma vediamo come la macchina da presa dei Dardenne segua continuamente Olivier, si ponga all’altezza della nuca quasi ad incalzarlo, registri il suo respiro, il battito del suo cuore. Nelle scene in automobile si pone al posto del figlio ormai morto, rivela la sua presenza-assenza come ad interrogare continuamente Olivier. Ci troviamo davanti quindi ad un film dove la concretezza assume un’importanza fondamentale. I registi non ci negano la materialità dei rumori, la pesantezza del legno, la sporcizia del lavoro. E costruiscono un film profondamente corporeo, materiale. Ma attraverso la materialità riescono ad esprimere un bisogno altamente spirituale; quello del perdono. In questo modo si ricollegano al cinema di un grandissimo maestro come Bresson. “L’anima ama la mano” affermava il maestro citando Pascal. E i Dardenne fanno proprio questo aforisma. Il rumore di una motosega, la fatica di sollevare un ‘asse esprimono meglio di tante parole il disagio profondo.

Cinema fatto di sguardi, di esitazioni, di ricerca di contatto attraverso un abbraccio molte volte temuto e desiderato, di pioggia e fango. “Due corpi separati da qualcosa che ignoriamo. Dei gesti, delle parole, degli sguardi che non cessano di misurare la distanza che li separa a e allo stesso tempo la potenza che li avvicina. E’ questo che bisognerà cercare di misurare con la nostra camera.” hanno dichiarato i registi. Si tratta dunque di cinema che sa toccare vertici altissimi di poesia, cinema che commuove proprio perché completamente mancante di emozioni esplicitate. Costruire l’emozione attraverso la resistenza all’emozione” affermava ancora Bresson. E i Dardenne riescono con il figlio a mettere in pratica questo dettame. Grazie anche alla grandissima prestazione di Olivier Gourmet immenso nel suo ruolo di uomo profondamente disadattato dietro i suoi spessi occhiali e le sue titubanze e incertezze. Alla fine il film non svela che cosa accadrà fra Francis e Olivier. Rimane lo scambio di sguardi tra un uomo ed un ragazzino che lo aiuta a caricare della legna su un furgone…

Mauro Madini