La New York di Rudolph Giuliani tanto decantata da più parti da questa sponda dell’Oceano come modello di rigore e ordine pubblico, ci viene implacabilmente smantellata da questo People I know, storia di un famoso P.R. in declino, Eli Wurman, che si destreggia tra le sue innumerevoli conoscenze per organizzare una serata in favore di un gruppo di colore ingiustamente messo all’indice dall’amministrazione Giuliani. Nell’inseguire la realizzazione dell’evento, simbolo della frenesia del sindaco-poliziotto nel gettare i delinquenti in gattabuia al minimo sospetto, Eli si imbatterà, fra voltafaccia e favori, squillo e telecamere-videogames, nei meandri di una società divisa in potenti clan che tramano sotto la superficie pulita e ordinata di New York.
Produzione indipendente, con un cast eccezionale (non solo Al Pacino, ma una provocante Tea Leoni, Kim Basinger, splendida e soave, il redivivo Ryan O’Neal), People I know mostra fin dalle prime battute il coraggio di affrancarsi dallo stile narrativo hollywoodiano fatto di banali botta e risposta e un ritmo incalzante, in favore di scene lunghe e prolisse, il cui punto di vista e protagonista assoluto coincidono nel formidabile Al Pacino. Il film si basa quindi su due semplici assunti. Uno tematico: descrivere, su di uno sfondo di aperta polemica contro il sindaco Giuliani, la cinica e spietata alta società newyorkese. L’altro, stilistico: fare tutto ciò incentrando la visione sugli occhi di un personaggio onesto e di sinceri valori che vive per professione immerso in quel letamaio.
La produzione ha trovato enormi difficoltà nel distribuire la pellicola nelle sale americane: sembra che nel film più persone si siano riconosciute e che alcune storie ricalchino fatti realmente accaduti a New York. Tant’è, ma la vera sfida del film non sta nel primo assunto, appunto quello di polemica denuncia, ma nel secondo, quello cioè di concentrare un’ora e mezza di proiezione su di un solo personaggio. Il regista ha in questo modo dato carta bianca ad Al Pacino e gli ha lasciato minuti su minuti per dar forma, come un cavatore d’altri tempi, al personaggio dalla rude piattezza della sceneggiatura. Quella che ne viene fuori è un’ottima personale interpretazione, un viaggio nelle 24 ore di un P.R. affogato dai farmaci, dall’insuccesso, dalla caotica Grande Mela, in uno stato semionirico dove invece tutto è reale. Il problema è che, al di là degli occhi stralunati di Al Pacino, la realtà che gravita attorno al suo personaggio per più di un’ora e mezza è la monotonia più assoluta. Sembra che, in aperto contrasto con la già citata tendenza sintetica dei dialoghi americani, il regista abbia voluto ridurre al minimo tutto ciò e lasciare così sterminate praterie ai monologhi del pur bravo Al Pacino, tanto che sempre più insistentemente ci si chiede cosa veramente voglia dire questo film alla platea o se sia solo un fiume di parole senza direzione. Niente di male, perché la parte finale e le riflessioni che ispira danno senso e valorizzano tutto quanto li precede, ma per lo spettatore impaziente, entrato in sala con un certo tipo di aspettative indotte da certa pubblicità e una certa abitudine alla forma dei film americani, è una frustrante battaglia contro i propri nervi che spiega le uscite di scena in corso d’opera di alcuni fra i meno temprati. Forse qualche punto in sospeso in più, anche una leggerissima forma di suspence, o più semplicemente qualche piccolo accorgimento ritmico (una goccia nell’oceano la scena dell’omicidio), non avrebbe rovinato lo spirito del film. Del resto: movere, va bene, docere, perfetto…e il delectare?
Francesco Rivelli