Gli Yorkin sono la famiglia piu’ fotografabile d’america, un po’ come il fienile di Rumore Bianco: sono fotografabili e amano fotografarsi, con la loro casa da copertina, la bellezza non ostentata di carni e beni, la superficie dorata che abbiamo imparato a identificare come “american dream” (e che qualcuno, piu’ intelligente, ha definito “American Psycho).
Le foto, ci ricorda Seymour Parrish all’inizio del film, fermano solo i momenti felici, e lui che le sviluppa “come se fossero sue” non trova niente di male nell’adottare gli
Yorkin come suo sogno personale, la famiglia che avrebbe voluto avere. L’american dream non ha neanche sfiorato Sy, che vive solo per il suo lavoro, per restituire ai suoi clienti stampe perfette dei momenti che vogliono ricordare, senza difetti, neanche quel piu’ 0,3 di ciano che gia’ imperversa nelle scintillanti corsie del supermercato, vero tempio del Bene dove Niente e’ Fuori Posto.
Chi e’ piu’ normale, Nina Yorkin o Seymour Parrish? Chi e’ piu’ umano, il solitario sprofondato nell’Happiness altrui o la mamma d’america che non vuole guardare dietro lo specchio della sua cucina immacolata? E’ ancora l’occhio di Bunuel (piu’ che di Kubrick) a dominare il campo, come in Minority Report, e come in Minority Report e’ ancora la Prevenzione Crimine a proteggere il Sogno dalla Realta’.
Cosa succede agli Yorkin? Cosa succede a Sy? Romanek decide di non raccontarcelo, di lasciarli li’ dove li abbiamo incontrati, a immortalare quello che speravano nel bagno di acido di centinaia di rullini.
Un film interessante, per me dolorosissimo (Sy e Nina rappresentano i miei due peggiori incubi di futuro possibile), probabilmente rovinato dall’ansia di costruire fin dall’inizio un finale a sorpresa di cui non si sentiva l’esigenza. Romanek non e’ Shyamalan e non basta (e non serve) una sequenza splatter per creare angoscia: sarebbe stato sufficiente l’accartocciarsi di Sy (Williams finalmente libero da Mork) quando viene licenziato per restituire l’orrore che ci siamo costruiti intorno.

Mafe