Recensione n.1

E’ facile capire cosa deve aver convinto Polansky, nell’opera autobiografica di Szpilman (1911-2000), ad affrontare il lutto inevitabile per ogni ebreo polacco, l’olocausto nella Varsavia bellica. Sicuramente la lettura ha conquistato il regista mostrandogli la possibilità di raccontare la tragedia personale di un artista ebreo (il più grande pianista polacco dell’epoca), inserendola nel più ampio contesto della tragedia universale dell’olocausto.
Il punto di vista particolare di Szpilman, che resiste agli incubi e alle privazioni più
terribili , anche con la forza della sua arte, deve aver richiamato al regista assonanze e memorie della propria biografia. La scrittura essenziale, asciutta, priva di una qualsiasi compiacenza sentimentalista ha vinto poi definitivamente la reticenza del regista, che in passato aveva rifiutato la direzione di Schindler’s list.
Nella prima parte la pellicola costruisce mirabilmente la nascita dell’orrore, mostrando i piccoli cambiamenti quotidiani imposti alla vita della comunità ebrea di Varsavia.
Questa parte è la migliore della pellicola. Procedendo per episodi, mostra diversi aspetti non ancora analizzati dai film sull’olocausto. Pone l’accento sulla sottovalutazione del pericolo da parte della popolazione polacca, ed ebrea in particolare, che credeva fermamente in una più pronta risposta del mondo civile, e non poteva prevedere l’escalation di mostruosità inumane alle quali sarebbero arrivati gli occupanti tedeschi.
Il bravissimo protagonista Adrien Brody, con una perenne espressione attonita, vaga per le strade di una Varsavia mirabilmente ricostruita e ottimamente fotografata dalla luce livida dell’operatore Pawel Edelman. Assiste come spettatore alla costruzione dei muri e degli steccati che rinchiuderanno la popolazione ebrea nel ghetto. L’umiliazione delle persone è costruita giorno per giorno, privandole delle necessità fondamentali.
Gli inumani pestaggi, le esecuzioni casuali, imprevedibili, hanno il potere di cambiare la natura di Szpilman. L’agiato borghese dovrà attraversare l’assuefazione al dolore, la perdita dei propri cari e della propria dignità, lasciandosi guidare dall’istinto animale della pura sopravvivenza. La forma della narrazione, sobria, chirurgica, riesce a far percorrere allo spettatore lo stesso percorso esistenziale del protagonista. Il regista è molto attento a non compiacersi della propria abilità narrativa, allontana il proprio punto di vista dal racconto, rinunciando a qualsiasi sottolineatura retorica. L’occhio della macchina da presa coincide con quello del protagonista, sopraffatto, inerme davanti ad un orrore inimmaginabile, assurdo.
Poi la pellicola si perde, si sfilaccia. Polansky chiude il protagonista, come un insetto di memoria kafkiana, dentro le rovine di Varsavia. Si sofferma troppo tempo su sottolineature di concetti chiari da subito. La ripetizione, ormai meccanica, degli orrori quotidiani non giova all’economia della pellicola che perde in spessore emotivo. Quando arriva l’incontro metaforico, salvifico, con il capitano tedesco il pathos si è esaurito. Avrebbe fatto bene il regista ad accorciare la pellicola mantenendo la saltellante, episodica, scarna, narrazione iniziale. L’opera pare inseguire invece una forma più tradizionale e composta. Il lungometraggio si risolleva solo in tre momentanei colpi d’ala dell’autore. Il guizzo surrealista nel riprendere il protagonista alle prese con un barattolo di cetrioli, lo stupefacente dolly che alzandosi scavalca il muro mostrandoci il protagonista isolato in mezzo alla disperazione delle rovine di Varsavia e dell’ umanità, l’interpretazione pianistica di Szpilman davanti all’ufficiale tedesco, dapprima esitante, poi impetuosa e rigenerante. Una metafora fin troppo chiara del potere dell’arte, unica via di salvezza (in questo caso anche reale) dagli orrori delle mostruosità nascoste nell’animo umano.
Nonostante questi momenti di grande cinema, la pellicola non convince appieno, pone dubbi sul comportamento di una giuria (quella del Festival di Cannes che lo ha premiato con la Palma d’oro) miope nella sua voglia di riscoperta del racconto tradizionale, di un cinema, di fine fattura artigianale, ma conservatore e rassicurante.

Paolo Bronzetti

Recensione n.2

Nella Polonia invasa dai nazisti, la storia (vera) di un grande pianista ebreo, costretto a nascondersi dalle persecuzioni.
Dopo tanti illustri colleghi (il più recente, Spielberg), Roman Polanski (di origini polacche nonchè ebree) porta sullo schermo il dramma degli ebrei durante il nazismo. Lo stile di Polanski è davvero impeccabile, la sceneggiatura asciutta, e la regia assolutamente perfetta per questo tipo di film. Anche il cast se la cava bene, Brody è un bel protagonista e soprattutto è ben diretto. Manca però quel piccolo slancio, quel qualcosa che mi faccia gridare al capolavoro. Sarà il tema ormai davvero saccheggiato dal cinema, sarà che la rappresentazione del dolore senza speranza è sempre difficile da digerire, sarà che nonostante le sue origini il regista ci offre un quadro talmente lucido da apparire freddo… insomma ho apprezzato 2 ore e mezzo di ottimo cinema, ma non penso che questo Pianista diventerà un classico. voto 7.

Holden