Recensione n.1
Cosa c’e’ di piu’ assurdo della guerra? Il cinema prova a sottolinearlo con regolarita’, tutti si commuovono, ricordano, promettono e si resta in attesa di un nuovo film che rievochi un passato sempre piu’ recente da commiserare. Proprio l’anno scorso “No man’s land” ha gridato con forza un messaggio pacifista ed ora lo urla anche Andrej Konchalovskij, che dirige un film bizzarro che procede per accumulo, di immagini, sensazioni, voci. Visivamente “La casa dei matti” e’ bellissimo, con una fotografia che amplifica la cupezza delle location ed una direzione degli interpreti davvero strepitosa.
Si tratta infatti di attori professionisti affiancati a veri portatori di handicap che non vengono sfruttati, come qualcuno ha sostenuto, ma hanno modo di esprimere la loro vitalita’. Sono quindi limitati al minimo i classici “tic” che fanno tanto demenza “made in Hollywood”. Come in tutti i casi in cui la pazzia viene accostata alla normalita’, si corre il rischio di mostrare piu’ saggezza proprio dove sono l’irrazionalita’ e la malattia ad avere il sopravvento. Rischio che il regista fugge per tre quarti della pellicola, cadendo nella evitabile trappola della “didascalia” nella parte finale.
Ed e’ un peccato, perche’ non c’era bisogno di nessuna spiegazione o dialogo chiarificatore per esplicitare cio’ che i personaggi avevano gia’ dimostrato con pienezza vivendolo, e conseguentemente trasmettendolo, sulla propria pelle. Invece Konchalovskij azzarda metafore, mette in bocca ai matti parole o significati poco credibili e svilisce l’intensita’ di un film complesso, visionario e per il resto riuscito. Il personaggio di Jeanne e’ uno dei piu’ dolci e commoventi visti ultimamente al cinema e Julija Vysotskij e’ davvero bravissima nel tirare fuori e rendere vitale la sua parte bambina. Anche Bryan Adams aderisce al progetto con simpatia, interpretando i sogni della protagonista che immagina ogni sera l’arrivo di un treno con il cantante e tutti i pazienti del manicomio abbracciati per ballare in totale armonia. Il contrasto tra questi grotteschi siparietti e il grigiore della realta’ in cui si avvicendano malattia, ceceni e russi e’ molto piu’ eloquente di tanta verbosita’ che finisce con il temperare l’impatto emotivo del film.
Luca Baroncini
Recensione n.2
“Nel 1996, durante la prima Guerra cecena, la regione di confine della vicina Repubblica Ingusetia si trovava sotto la minaccia dell’incursione delle unità cecene. Non lontano dal confine c’era un ospedale neuropsichiatrico dove i pazienti vivevano la loro vita di tutti i giorni senza avere idea di ciò che stava per accadere.” E un bel mattino al risveglio non trovano più i medici, ma i soldati ceceni e più tardi anche quelli russi. L’ospedale diventerà teatro di battaglia…
Konchalovsky, dopo un lustro di silenzio, torna alla grande e rischia grosso: accostare il tema della follia della guerra (nel caso del conflitto russo-ceceno una vera e propria guerra fratricida, quindi ancora più insensata) a quello della follia pura e semplice è affascinante sulla carta, ma rischia di risultare banale e di scivolare nel retorico.
Vince la sfida con un piccolo segreto: nella complessità degli argomenti trattati sceglie la strada della semplicità. Mischia autentici “freak” non professionisti agli attori professionisti; inserisce tra le immagini in pellicola alcune riprese in digitale, quasi rubate dal set, come per dar loro una maggiore sincerità; riduce i dialoghi importanti, quelli sulla guerra, al minimo, rendendoli così ancor più significativi e asciutti; sceglie una fotografia, diretta da Sergei Kozlov, slavata e asettica, freddamente “ospedaliera”, che si colora prodigiosamente quando Janna suona la polka con la sua fisarmonica.
Qualche eccesso, come le musiche “circensi” di Edward Artemiev o il soldato ceceno che alla fine si fa passare da matto per salvarsi, viene smussato da punti di forza, quali il cast ben assortito, nel quale risaltano la bella e brava protagonista Julia Vysotsky e le oniriche apparizioni di Bryan Adams.
Complessivamente il gioco di specchi tra la saggezza dei folli pazienti – capaci di riconoscere la follia della guerra, come fa Janna verso la fine, e ripudiarla in qualche modo – e la follia dei “savi” militari – quasi a loro agio nel contesto dell’ospedale pscihiatrico – è ben condotto, sofisticato, ma efficace.
In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 2002, è stato premiato col Gran Premio Speciale della Giuria e il premio dell’UNICEF.
Paolo Dallimonti