Recensione n.1
Avrebbe potuto disperdersi tra i tanti blockbuster dell’anno, invece “Il mio grosso grasso matrimonio greco” e’ diventato un vero e proprio fenomeno da botteghino. Costato poco piu’ di cinque milioni di dollari, solo in America ne ha incassati oltre duecento e anche in Italia, e nel resto del mondo, continua a mietere spettatori. Cos’ha di cosi’ speciale il film di Joel Zwick, nato dalla determinazione della protagonista e sceneggiatrice Nia Vardalos? Tralasciando i clamori degli incassi e attenendosi alle immagini, ci troviamo di fronte ad una classica commedia, dove il brutto anatroccolo trova il principe azzurro e vivono tutti felici e contenti.
Una regia funzionale al racconto e molto attenta ai tempi comici (in alcuni momenti si ride di gusto), unita a una sceneggiatura oliata e a interpreti convincenti, rendono il film un gradevole passatempo. Andando un po’ piu’ a fondo nell’analisi colpisce l’apparente anticonvenzionalita’ del soggetto: la protagonista appartiene ad una famiglia greca legatissima alle tradizioni e deve lottare non poco per imporre l’amato yankee al rigido patriarca. Ma la novita’ e’ solo di facciata perche’, dietro alle stravaganze etniche, il percorso di Toula non scardina alcun cliche’ e ripropone, senza alcuna variante e calvalcando gli stereotipi, il matrimonio come unico elemento in grado di dare senso e felicita’ alla vita. A tal riguardo l’attenzione della sceneggiatura e’ tutta riposta sul personaggio femminile. Il belloccio di turno, infatti, si rivela paladino di un amore tanto puro quanto privo di “umanita’”, funzionale per il grande schermo ma assolutamente irreale nella concretezza della quotidianita’, dove qualche ombra si affaccia anche sulla coppia piu’ affiatata.
Cos’e’ allora che ha attirato il pubblico da ogni latitudine?
Forse proprio l’assenza di novita’ e l’abile rimasticatura alla base del progetto. In fondo e’ sempre piacevole immergersi in una storia dove un personaggio debole (per cui si parteggia subito) trova la forza per cambiare la sua vita e realizzare un sogno. Fondamentale per la riuscita, una certa freschezza nella confezione e la capacita’ di creare un’empatia con il pubblico. In questo, riescono alla perfezione i tanti spunti folcloristici e un’interprete assolutamente in parte. Generalmente, infatti, assistiamo alla starlette del momento che si imbruttisce per poi dimostrare quanto e’ “bona” (fondamentale la scena in cui abbandona gli occhiali spessi due dita). Nel film di Zwick, invece, Nia Vardalos non inganna il pubblico, ma si mostra subito per quello che e’ (occhiali a parte): una ragazza in carne con occhi vispi e sorriso contagioso. Ed e’ proprio lei la forza del film, l’elemento che ha consentito l’identificazione di milioni di ragazze che magari si sentono bruttine rispetto alla perfezione di plastica imposta dai media e pensano di doversi accontentare. Una sorta di riscatto attraverso il cinema. In realta’ anche questa non e’ una novita’. Pensiamo al ben piu’ cattivo “Le nozze di Muriel” o all’amore a tempo di musica di “Ballroom – Gara di ballo”. In entrambi i casi la protagonista femminile non era certo uno schianto ma riusciva a vedere, e a farsi vedere, al di la’ del suo aspetto fisico.
Siamo quindi daccapo! Cos’e’ che rende speciale il film? Forse una congiuntura astrale favorevole o, con piu’ probabilita’, il fiuto e l’abilita’ di produttori e distributori che sono riusciti ad imporre il film creando un passa-parola capace di mantenere alta l’attenzione sul titolo. Chissa’ quanti film, senza particolari pretese ma ben fatti e divertenti, riuscirebbero a diventare “fenomeni da botteghino” se solo potessero avere visibilita’. Perche’ c’e’ poco da fare, alla fine il pubblico continua a vedere quello che qualcuno ha deciso debba essere visto.
Non tutte le ipotesi trovano riscontro e progetti a lungo coccolati e sostenuti si rivelano sonori flop, ma la visibilita’ resta uno degli elementi determinanti per il successo di un film. Pensiamo, tanto per abbondare con gli esempi, a “Con la testa tra le stelle”, gustoso film fantasma di Aileen Ritchie della scorsa stagione, dove un Irlanda formato esportazione e una sceneggiatura ritmata non hanno compiuto il miracolo. Analisi di un fenomeno a parte, “Il mio grosso grasso matrimonio greco” e’ un film simpatico, divertente e convenzionale.
Luca Baroncini
Recensione n.2
Sono andato a vedere questo film non perchè mi piacesse particolarmente, ma, in un certo senso, a scopo di studio. Per come funziona il sistema hollywoodiano oggi, il successo non significa quasi nulla, dal punto di vista sociologico o intellettuale. Non vi è alcun rapporto necessario fra ‘successo’ ed i gusti ed opinioni del pubblico americano. Ogni settimana esce un film in migliaia di sale al culmine di una campagna pubblicitaria che a volte costa più del film: durante il weekend milioni di persone, che comunque sarebbero andate a vedere un film, lo vanno a vedere per verificare se assomiglia al trailer. Escono e dicono che è una cagata: la settimana successiva gli incassi sono dimezzati e dopo un po’ non se ne ricorda più nessuno. Si entra in classifica, nella top ten, dall’alto e si scende, spesso molto rapidamente.
Già quando un film rimane nella top ten per più di tre settimane se ne parla come di un fenomeno. In realtà il meccanismo è così automatico che è molto più interessante considerare le volte in cui non funziona (ultima notizia: il recente cartoon sull’Isola del Tesoro ambientato nello spazio si sta rivelando un clamoroso flop). E naturalmente, diventa un successo autentico quando oltrepassa talmente le aspettative da potersi considerare un autentico fenomeno di massa. Titanic, per esempio, era un colossal costosissimo ed ampiamente pubblicizzato, ma la sua permanenza per mesi e mesi in testa agli incassi praticamente dappertutto, non ha riscontri negli ultimi decenni. Ogni anno ci viene presentato un film che dovrebbero raggiungere quei livelli – Phantom Menace, Pearl Harbor (!) – e invece niente. Blair Witch Project, dal canto suo, è agli stessi livelli non tanto di incassi quanto di rapporto costi-ricavi, anch’esso con pochi precedenti. Ma la campagna pubblicitaria fu eccezionalmente elaborata ed è forse più degna di studio che il film stesso.
My Big Fat Greek Wedding (il titolo italiano risulta persino migliore) è ancora più sorprendente. Costato quattro lire, attori sconosciuti o di secondo piano, campagna promozionale non particolarmente invadente, è rimasto nella top ten americana per mesi. Di più, arrivandovi dal basso – cosa che davvero succede rarissimamente. Ha incassato più di altre commedie romantiche di successo degli ultimi anni e naturalmente le surclassa assolutamente in termine di rapporto costi-ricavi. Insomma, un film che è piaciuto veramente. Si va a vedere e… bof. Si vede un film tv discretamente divertente. Si ride – ma s’è riso di più. La regia è piattissima – Zwick è un regista televisivo qualsiasi (Happy Days, Love Boat…) – e nel pomeriggio avevo visto Femme Fatale con gli strabilianti virtuosismi di De Palma. La trama è scontata fino all’inverosimile, ribadisce tutti i dogmi della cultura di massa senza modificarli di una virgola.
Perchè ha avuto tanto successo negli USA (e la sala di Genova dove l’ho visto era gonfia di pubblico)? I giornali italiani, ovviamente, l’hanno messo in rapporto agli attentati dell’11 settembre 2001 – ed è già tanto se non hanno tirato in ballo la guerra con l’Irak. IMGGMG sarebbe da considerare come il desiderio di conferme tradizionali di una nazione traumatizzata. Cavolate: oggi possiamo verificare che gli attentati non hanno avuto alcun influsso duraturo (almeno per il momento) sulle abitudini americane riguardo all’intrattenimento. Si guardano gli stessi programmi televisivi, gli stessi film, gli stessi libri. Il trash impera indisturbato (Celebrity Boxing, American Idol). Qualcuno – su Panorama – ha tirato in ballo la fine del femminismo ed il ritorno del matrimonio. Come se da vent’anni i film americani non celebrassero il matrimonio in tutte le salse. Negli anni 70, forse: un bel po’ di tempo fa, in termini cinematografici. Paranoicamente, si potrebbe pensare che se tutto è in funzione della pubblicità, allora quella di IMGGMG, lungi dall’essere modesta, dev’essere stata di una sottigliezza ed efficacia inimmaginabili.
Ma non mi pare il caso: il sistema hollywoodiano è efficacissimo ma non assoluto, come i fiaschi inaspettati così si possono immaginare successi inaspettati. L’unico atout del film era il fatto di essere stato prodotto da Tom Hanks: questo garantiva un certo interesse dei media che altrimenti non vi sarebbe stato – ma quando Hanks diresse un film (That Thing You Do) dopo aver vinto due Oscar il riscontro fu modestissimo. Diciamo subito che la regia, per quanto piatta, è funzionale. I tempi comici sono ottimi e si spartiscono il tempo con quelli romantici in proporzioni precise, da formula chimica. Non c’è nulla che possa offendere chicchessia, le volgarità sono ridotte al minimo, meno di una qualsiasi puntata di Friend o ER. Il tema – Cenerontola, sostanzialmente – è fatto per toccare il pubblico femminile e lo tocca con precisione, viste le reazioni in sala. Tutto si risolve nel dogma principale della cultura di massa: amor vincit omnia, ovvero l’amore è giustificazione a se stesso – il tema di quasi tutti i film americani. Ma questo non basterebbe a spiegare il ‘di più’.
Due fattori, secondo me, spiegano questo successo.
1) Gli attori. Il pubblico femminile americano (e non solo) va a vedere con entusiasmo le commedie romantiche con Julia Roberts o Meg Ryan, anch’esse di solito variazioni sul tema Cenerontola (Pretty Woman, in particolare). Ma se c’è la proiezione dei desideri, non c’è l’identificazione. Julia Roberts può far finta di essere più brutta e comune di Catherine Zeta-Jones ma sappiamo benissimo chi guadagna di più. Sappiamo che la Roberts è la più grande star femminile del momento: insomma, siamo qui per questo. Ma non è davvero possibile identificarsi. Con Nia Vardalos l’identificazione femminile è stata massiccia ed euforica: finalmente! La Vardalos è una finta brutta: all’inizio ha gli occhiali pesanti, i capelli depressi e si veste come un fagotto. Poi migliora e si rivela una bella trentenne, un po’ sul pesante, vivace ed intelligente (fra l’altro: la sceneggiatura è sua) ma nessuno la scambierà per Cameron Diaz. In più, chi l’aveva mai vista prima? Il principe azzurro è John Corbett, visto anni fa in quel bel telefilm, Un Dottore fra gli Orsi: volto conosciuto ma non certo una star. Un bell’uomo ma realistico: ha la pancia. Intelligente, dolce, comprensivo, affidabile – evanescente. Si converte al cristianesimo greco-ortodosso per compiacere la famiglia di lei e supera senza sforzo le modeste obiezioni della sua famiglia. Il suo vero e unico merito: aver riconosciuto Cenerentola quando era ancora brutta. La formula si dispiega in tutta la sua potenza senza essere appesantita da star.
2) I Greci. Prima che se ne interessasse Hanks, altri produttori avevano suggerito di cambiare il gruppo etnico: italiani, polacchi, ebrei, ce n’è di più e la trama sarebbe stata la stessa, grosso modo. La Vardalos non ne volle sapere ed ebbe ragione. Ma non perchè vi sia qualcosa di particolare con i greci: anzi. Una famiglia vasta e tentacolare, affettuosa ma anche soffocante, che veste male e mangia tanto. Si poteva fare benissimo con altri gruppi etnici. Ma: 1 – Gli italiani non andavano bene, perchè non si sarebbe potuto evitare un subplot mafioso. 2 – I polacchi non andavano bene, perchè sono l’oggetto di migliaia di barzellette. 3 – Gli ebrei non andavano bene, perchè allora il sottofondo religioso sarebbe dovuto essere più in evidenza (lui si converte con facilità all’ortodossia greca, ma la cosa non significa nulla perchè i greci ortodossi non contano, nell’immaginario americano. Convertirsi all’ebraismo sarebbe stato diverso, poichè molti americani hanno un’opinione sugli ebrei ed il cristianesimo) 4 – I latinos non andavano bene, perchè sono ancora leggermente troppo esotici (anche se la cosa sta cambiando rapidamente), uno stadio intermedio fra bianchi e negri – e non vi sarebbe stata identificazione del pubblico di massa, per principio bianco. I neri – non ne parliamo nemmeno. Poi all’idea di una vasta ed affettuosa famiglia nera non crederebbe nessuno, come pure ad una vasta ed affettuosa famiglia anglo. No, quello è un privilegio dei gruppi citati sopra. I greci, un gruppo etnico numericamente medio-basso e di bassissimo profilo pubblico, sono perfetti per l’identificazione proprio grazie alla loro relativa insignificanza: assomigliano a italiani, ebrei, polacchi, latini – ma senza alcuna controindicazione. (e infatti hanno avuto un candidato alla Presidenza, Dukakis nel 1988, mentre gli altri no) Così il film permette ad un gruppo di ottimi caratteristi di recitare per la prima volta in vita loro dei greci, cioè se stessi. In particolare il padre, Michael Costantine, che ha gran parte delle risate, ha finalmente una buona parte dopo cinquant’anni di carriera in centinaia di film e telefilm. Andate a vedere su IMDB: lo riconoscerete immediatamente, ed ora ha anche un nome. Questi due fattori hanno permesso al Mio Grosso Grasso Matrimonio Greco di essere il fenomeno dell’anno, rispetto a film molto più ‘cool’, grossi o significativi. Perchè, davvero, come film non è nulla di che, anche se vi promette che riderete, un po’.
Stefano Trucco
Recensione n.3
Vanno di scena gli stereotipi in questo grasso matrimonio alla greca, dove due diverse culture si incontrano suscitando gli appaganti sorrisi di una platea desiderosa di svago (è questo il miglior periodo dell’anno).
I greci certo, ennesima canzonatura americana sui propri colonizzatori, avi dalle strambe usanze che hanno contribuito a creare quell’ammasso di etnie che è l’America. Ci si scherza addosso quindi, e con gusto, strizzando l’occhio bonariamente non solo ai greci, ma un po’ a tutti i ceppi, ridendo infatti più che altro delle tradizioni, della mentalità all’antica e della stravaganza, minimo comune denominatore di tutti i popoli emigrati in America tempi or sono.
E allora il mio grosso grasso matrimonio greco è proprio la caricatura di due epoche, l’una tradizionale e legata alle radici della propria terra d’origine che si lancia in balli scatenati e party carnivori al minimo pretesto, l’altra sofisticata e moderna, che ascolta musica classica mentre conversa e si crogiola in atmosfere di snobistica quiete. Stereotipi, ovviamente, che però vengono messi in scena dignitosamente strappando sorrisi leggeri e soavi, che si assaporano qua e là nel mezzo di una commedia piacevole, la storiella d’amore di un anatroccolo trasformatosi in cigno e l’avvicendamento di due famiglie agli antipodi. Gli ingredienti sono quelli giusti per trascorrere una serata senza troppi pensieri, davanti a questo film tutto pop-corn e Coca Cola, fortemente voluto da Tom Hanks, che se non sbaglia un colpo da attore, figuriamoci da produttore! Saranno solo commediole, ma sanno ben riscaldare queste fredde serate invernali. E questo basta.
Francesco Rivelli