La seconda visione rompe ogni indugio e fa innamorare di questo film incredibile, insieme privo di compromessi ma desideroso di comunicare.
Ad esempio, riascoltare il primo dialogo di Cage con la Swinton non puo’ che dare una sensazione di deja-vu, visto che anticipa per filo e per segno il finale hollywoodiano: “non vorrei farne un orchidea-western, o un film sul traffico di droga… o metterci per forza del sesso, o un inseguimento…”.
Piu’ ci rifletto e piu’ mi sembra appropriato un possibile accostamento con “Mulholland Drive”, non per affinita’ tematiche
o stilistiche, almeno non esplicite: quanto per la loro natura di film *automodificanti*. Direi quasi “evolutivi”, se non fosse che “Adaptation.” e’ proprio un film sull’incapacita’ di autoevolversi, ed e’ costretto a chiudersi nell’involuzione dell’exploitation di Donald. Sono film dove i personaggi stessi, non lo sceneggiatore, forzano le vicende e la narrazione del film. E questa frase e’ tanto piu’ stupida quanto piu’ si pensa che la Diane di “Mulholland Drive” e’ in fondo la sceneggiatrice del suo sogno, e volendo anche dell’omicidio di Camilla e del suo suicidio. Anzi, a ripensarci anche “Mulholland Drive”, come “Adaptation.”, e’ la creazione delirante di una mente incapace di venire a patti con un elemento di disturbo (l’adattare un romanzo infilmabile per Kaufman, accettare l’abbandono da parte di Camilla per Diane/Betty).
Sono pellicole capaci, per questa loro caratteristica, di essere oggetti vivi e non semplice rappresentazione. Parlare di questi film puo’ portare vicino a territori linguistici anche lontani, come l’informatica. Non e’ alieno pensare che possano essere i semi per una nuova “generazione” non tanto e non solo di pellicole, quanto di forme di comunicazione e di linguaggio, successive a quelle metalinguistiche. “Adaptation.” non e’ solo metacinema: e’ meta-vita, perche’ non solo e’ cinema che parla di cinema, ma e’ anche cinema che parla di “vita intorno al cinema”, ed e’ esso stesso non solo cinema, ma “vita intorno al cinema”.
Fa piacere confermare che Jonze e’ il meno “videoclipparo” (in senso negativo) dei registi di videoclip. Dirige un film difficilissimo senza mai perderne il controllo, e al completo servizio della primadonna Kaufman. Un grandissimo. E’ un dio assoluto nel filmare gli incidenti stradali, per inciso.
Inoltre, sembra una cretinata ma non lo e’, “Adaptation.” e’ il secondo film in 10 anni ad usare “Happy Together”. Ma se in Wong Kar-Wai il ritornello era liberazione finale, in “Adaptation.” non lo sentiamo mai, a favore delle strofe (cantate due volte da Cage: il momento in cui Donald, senza motivo, incoraggia Charlie a intonare il ritornello e’ anche l’attimo in cui inizia il Finale, non a caso) e del finale, trionfale ma mai appagante quanto il notissimo “I can’t see me lovin’ nobody but you…”. Questo stesso uso della canzone e’ quasi un coitus interruptus che riecheggia l’intero film. D’ora in poi sara’ impossibile ascoltarla senza pensare alle implicazioni che “Adaptation.” riversa su una canzone altrimenti normale, conosciuta, non diversa da molte altre. Strepitose le musiche di Carter Burwell, ma si poteva gia’ immaginare. Rimanere fino alla fine dei titoli di coda, oltre che buona creanza ed opportunita’ per non perdere una citazione dallo script de “I 3”, e’ veramente doveroso per lo splendido tema musicale.
EB (da IAC)