Recensione n.1
Roxie Hart (Renée Zellweger) sogna di diventare ballerina e cantante e di calcare le scene dei più importanti teatri
della città. Per raggiungere lo scopo, frequenta un uomo che ha promesso di aiutarla. Quando lui la delude, però, lei preme il grilletto. Nelle patrie galere incontra l’amica-rivale Velma Kelly (Catherine Zeta-Jones), già star affermata che ha lavato nel sangue una storia di corna. Sarà l’intervento del brillante e cinico avvocato Billy Flynn (Richard Gere) a fare dei due “incidenti di percorso” un trampolino verso il successo.
Questo l’esile intreccio che fa solo da pretesto a un film basato sulle coreografie e i costumi, le musiche e i balletti, come per ogni musical che si rispetti. La particolarità è che le scene ballate e cantate raccontano i sogni e i desideri dei protagonisti, facendo da contrappunto a una realtà squallida e insoddisfacente. Non manca una critica graffiante ai mondi dello show biz e della giustizia/giornalismo/politica, in America (e forse anche in Italia?) quanto mai fittamente intrecciati.
Richard Gere fa il verso a se stesso interpretando il ruolo di un avvocato avido e ambizioso per nulla interessato alle questioni del cuore. Balla e canta bene, però, e ci regala una coinvolgente scena di tip tap e un’ironica interpretazione del “burattinaio” che resteranno certamente impresse nella memoria dello spettatore. Cinema di puro intrattenimento, consigliato agli amanti del genere.
Mariella Minna
Recensione n.2
La stampa e il marketing hanno creato il caso “Moulin Rouge”, definendolo come l’ultimo musical possibile. Un caleidoscopio di colori unito alla contaminazione di generi musicali diversi, e in apparenza inaccostabili, in grado di rompere con la tradizione del passato. Per molti, l’unico modo per adattarsi alle dita prensili delle giovani generazioni, abituate a tambureggiare sui tasti del telecomando per passare senza sosta da un programma televisivo all’altro e incapaci, a quanto si dice, di seguire con interesse sequenze prive di almeno uno stacco ogni cinque sec ndi. In realta’ il musical e’ patrimonio genetico del cinema americano e, se “Moulin Rouge” lo ha in qualche modo reinventato, non si deve andare poi troppo indietro nel tempo per trovarne uno di successo. Basta pensare a “Evita”, di Alan Parker, che e’ del 1996 e si puo’ considerare un esempio riuscito di narrazione in musica apprezzato anche dal pubblico; segno quindi tangibile dell’intramontabilita’, pur con alti e bassi, del genere. Con “Chicago” Rob Marshall, regista teatrale di successo, compie un’operazione che unisce sfarzo, talento e furbizia e riprende, per fortuna in stile tutt’altro che “dogma”, l’idea alla base di “Dancer in the dark”.
La protagonista, infatti, come la Selma del film di Lars von Trier, vorrebbe vivere in un musical e tutte le performance proposte sono frutto della sua fantasia: una sgargiante interpretazione della realta’ in contrapposizione allo squallore del presente. La grande abilita’ del regista e’ di orchestrare con certosina perizia i passaggi tra i vari livelli della narrazione. In questo senso il montaggio e’ davvero strepitoso per fluidita’ e complessita’. Nonostante le tante invenzioni visive, pero’, il film pare arrivare ormai fuori tempo limite. Non tanto perche’ musical, anzi, ben vengano personaggi che di colpo interrompono la linearita’ del racconto per rifuggire nel canto, quanto per l’odore di naftalina che si respira.
A partire dall’ambientazione, con i soliti anni del Proibizionismo rappresentati da locali fumosi ad alta gradazione alcolica e riempiti da personaggi incapaci di uscire dallo stereotipo (l’avvocato senza scrupoli, la Mamy, la gatta morta, la vamp, il marito cornuto); fino alla sceneggiatura, che segue il piu’ classico degli schemi con l’immancabile processo dalla pubblica risonanza a sciogliere i fili della vicenda. Inoltre “Chicago” punta su una satira di costume vecchia come il cucco (l’inflazionato mix di sesso&potere, aggiornato ai tempi nella fame di successo delle due protagoniste) e su un cinismo piu’ formale che sostanziale. Anche la musica, quasi completamente jazz e priva di un motivo trainante, si dimentica in fretta e lo show ripesca da vecchi armadi lustrini e paillettes senza troppa ironia. Gli interpreti si prestano con volonta’ e disinvoltura alla non facile prova del canto e del ballo, anche se Renee Zellweger ripropone il suo campionario di smorfiette e moine sempre piu’ insopportabili, mentre Catherine Zeta-Jones sfodera, oltre a un corpo da matrona del tip-tap, una grinta da leonessa. Richard Gere non sfigura, pur senza brillare, nel ruolo del cinico avvocato. Tra i vari numeri musicali, a lasciare il segno e’ “Cell Block Tango”, in cui le detenute in attesa di giudizio raccontano come sono finite in carcere e che sintetizza la grande padronanza del mezzo cinematografico da parte del regista. In un anno minacciato dai venti di guerra, dove il cinema sembra dover assolvere la funzione di distogliere il pubblico dagli accadimenti reali, “Chicago” potrebbe essere il candidato ideale per fare incetta di statuette. Come dire, se non puoi convincerli, confondili!
Luca Baroncini
Recensione n.3
Come gran parte dei musical di successo che si sono poi ritagliati un proprio spazio nel panorama cinematografico, Chicago è innanzitutto un terremoto che fa tremare le poltrone, scuote i sensi degli spettatori, li ammaglia e li conquista, a tal punto che risulta difficile in alcuni momenti trattenere il corpo dal suo ritmo fluviale. La cosa inaspettata è che ciò accada con la sensualità del jazz.
La messa in farsa del mondo dello spettacolo è lo spunto per creare accostamenti di scena montati magistralmente. Il montaggio segue infatti le modalità del sogno, procedendo per analogie, ma in alcuni punti si raggiungono vette altissime dove le parole diventano ritmo, le intenzioni sono immagini e le atmosfere sono sempre più cerebrali: esemplare è la scena dell’interrogatorio di Gere alla Zeta-Jones, alla quale si alterna nel montaggio un balletto di tip tap eseguito dallo stesso Gere..
Non solo, in armonia col pretesto del musical (il mondo dello spettacolo, appunto), sul piano fotografico e su quello sequenziale ritroviamo alla perfezione il dogma fondamentale dell’enterteinment: apparire per sorprendere. Colori pieni ed accesi infatti si accostano a scene patinate anni ’20, le luci sfavillanti delle esibizioni trovano il loro contro-altare nelle statiche e soffuse illuminazioni del carcere, mentre meravigliose canzoni jazz creano un vuoto sonoro quando vengono seguite da scene volutamente blande e discorsive. Richard Gere sa un po’ di plastica nelle parti musicali, ma dobbiamo ammettere che come avvocato rimane sempre molto convincente. C’è infine qualcosa che, tra cotanto sfarzo, risalta su tutto: un’inaspettata Catherine Zeta Jones. Pur se più in carne delle altre, si scatena ruggendo come un leone e disintegra tutti gli altri balletti (ivi compresi quelli della Zellweger, il duetto finale è impietoso in questo senso) sminuendoli a semplice contorno. E poi, in alcuni magici momenti, quando le labbra le si allargano ad uncino sulle guance in un miracoloso sorriso insieme malefico e sensuale, la mente sembra volare indietro nel tempo, a quel grandissimo che è Tim Curry nel Rocky Horror Picture Show…basterebbe questa reminiscenza per giustificare l’Oscar da Miglior attrice non protagonista!
Francesco Rivelli
Recensione n.4
Non c’e molto da dire su questo film:
Belle musiche, belle scenografie, bravi gli interpreti, frizzante a sufficenza per non farsi venire a noia dopo 10 minuti. Come tutti i musical ha i suoi pregi e i suoi difetti, questi ultimi si possono ricercare nella durata forse un po’ eccessiva dei numeri musicali e una carenza vistosa di parti “parlate”. Per cui, se non amate il genere, statevene pure a casa, perche’ il 95% del film sono canzoni in lingua originale con i sottotitoli da leggere nella parte bassa dello schermo.
Assolutamente inutile il paragone che alcuni hanno fatto con Moulin Rouge, questi due film sono totalmente diversi, pur trattandosi di due musical. Contapposto all’atipicita’ kitsch del film di Baz Luhrmann, questo ricalca invece i canoni tipici senza soluzioni visive di particolare rilievo. Un plauso alla Zellweger, protagonista indiscussa del film, ok la Zeta-Jones, non male Richard Gere, che gigioneggia un tantinello, ma a cantare non e’ poi cosi’ male.
Tutto il resto, e’ jazz.
Voto: 7
Wolf