Recensione n.1

Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende

Primi del ‘900. Nello Balocchi, insegnante di letteratura latina e figlio del sarto del Papa, viene inviato dal padre a Bologna per cercarsi una compagna.
Il soggiorno dà i suoi frutti: Nello si innamorerà infatti di una ragazza bella, ricca, capricciosa…e cieca.

Impossibile non provare un’istintiva simpatia per il goffo Nello Balocchi (il bravo Neri Marcorè) che, figlio di un sarto romano (Giancarlo Giannini) che si fregia di aver vestito ben tre papi e che scalpita per avere il tanto desiderato nipote a cui lasciare in eredità la sartoria, si trova catapultato a Bologna alla ricerca di una moglie. In realtà è ancora vergine e, dopo un paio di tentativi andati a male, incontra Angela Gardini, rampolla di una famiglia alto borghese e che ha di recente perso la vista. La viziata Angela è ancora innamorata del cinico ex fidanzato e userà il malcapitato giovane per tentare di ingelosire quest’ultimo e anche come “bastone” a cui appoggiarsi nei momenti di maggior sconforto. Ma Nello, nella sua sconfinata ingenuità e trabordante generosità, la chiederà addirittura in moglie.
Il film ha l’indiscutibile merito di rappresentare fedelmente la provincia italiana, unica e irripetibile, autentico patrimonio culturale nazionale. Su questa solida base, si inserisce un tema di malinconica nostalgia per la giovinezza perduta. È facile intuire sotto le mentite spoglie di Nello, un Pupi Avati giovane e inesperto, idealista e puro. E poi, la storia d’amore a senso unico, che diventa totalizzante perché frutto di un’estrema idealizzazione. E che rischia di far deragliare il pur equilibrato protagonista che, a seguito della delusione, rientra nei ranghi e sceglie di lavorare con il padre. Ma è proprio nel finale, sottolineato egregiamente dal commento musicale straordinario di Riz Ortolani che peraltro arricchisce emotivamente l’intera pellicola, che Nello trova il suo riscatto. Non è stato solo un sogno giovanile, era l’Amore con tutte le sue pene e il suo splendore.
Con questo film, Pupi Avati coglie nel segno. Il film è ben calibrato e misurato, cambia spesso di registro in modo da non annoiare, ci racconta della delicatezza e della dolcezza dell’animo umano, con una vena di malinconia a cui il regista ci ha da sempre abituato. La Storia entra solo di sguincio, l’operazione è squisitamente privata e intimista. Ma questo non è un difetto, è solo un punto di vista personale sulla realtà. Insomma è buon cinema e, soprattutto, è cinema italiano!

Mariella Minna

Recensione n.2

“C’era una volta” continua a raccontare Pupi Avati ambientando, nella Bologna degli anni Venti, la storia dell’iniziazione amorosa di un introverso professore di italiano con una giovane ragazza cieca, capricciosa e smaliziata. Nonostante una certa grazia di insieme e una malinconia, che (per fortuna!) non diventa mai nostalgia, pero’, la minestra e’ riscaldata e ci si ritrova in uno sceneggiato televisivo per la prima serata dove tutto e’ prevedibile e piatto, dalla confezione allo spessore del racconto.
La sceneggiatura attraversa senza fantasia i luoghi comuni del melodramma contratto e banalizza il protagonista, invece ricco di possibili sfumature. Sembra quasi di sfogliare i capitoli riassuntivi di un libro illustrato, con immagini che non trasmettono mai l’interiorita’ dei personaggi, limitandosi ad una superficie che copre e svilisce qualsiasi coinvolgimento. Anche la “bolognesita’”, marchio di fabbrica del regista, e’ pura facciata: non bastano le solite battute con accento cadenzato per trasmettere lo spirito di una regione e di un’epoca. In altri film, ad esempio “Storia di ragazzi e ragazze”, Pupi Avati era riuscito a fare entrare lo spettatore in un’atmosfera d’altri tempi, curando i dettagli e la caratterizzazione dei personaggi, soprattuto quelli minori. Ne “Il cuore altrove”, invece, non si esce da un quadretto di banali macchiette che non diventa mai davvero comunicativo, aggravato da un doppiaggio mal calibrato che toglie anche quel poco di naturalezza previsto dalle battute.
Per cio’ che riguarda gli interpreti, Neri Marcore’ e’ in parte e presta la sua fisicita’ dinoccolata al protagonista con timida convinzione, mentre Vanessa Incontrada, oltre alla sua bellezza, regala ben poche sfumature al non facile personaggio di Angela. Il doppiaggio con dizione perfetta, poi, probabilmente aiuta la sua resa recitativa ma ne azzera la spontaneita’ e provoca un effetto di straniante distacco. Quanto agli altri, Nino D’angelo incarna il “tipo napoletano”, ovviamente verace, Giancarlo Giannini e’ il “tipo romano”, ovviamente sopra le righe (ma e’ sempre un piacere vederlo recitare) e Sandra Milo e’ il tipo “donnone padano”, ma non evita il disastro nonostante le poche battute. E anche il film scivola nel tipo “Pupi Avati”, ma piu’ che ampliare un punto di vista personale pare trovare nel riciclo il suo punto di forza.

Luca Baroncini

Recensione n.3

Che belli questi due personaggi ritratti da Pupi Avati con tanta delicatezza.
Che bello guardare Neri Marcoré e specchiarsi di fronte ad un tale timido d’altri tempi.
Che freschezza questa Angela, una Vanessa Incontrada piena di vita, ninfa ammaliatrice dal sorriso lucente.
E poi, che sorpresa questo lavoro incipriato di tenerezza, una favoletta con l’amaro in bocca: Marcoré non è certo Robert De Niro in quanto a recitazione, ma il ruolo sembra essergli stato cucito addosso; lo stesso vale per la Incontrada che, sebbene con un pizzico di recitazione in più, ci mette tanto istinto.
Ma è una scelta azzeccatissima: due non-attori le cui personalità ricalcano i rispettivi personaggi, sono una miniera d’oro di sguardi, sussurri e atteggiamenti assolutamente naturali.
Pupi Avati ne sa sfruttarne appieno le potenzialità, anche se il film stenta a mantenersi su livelli decenti per tutta la prima mezzora. Raccordi tra scene a dir poco raccapriccianti, dialoghi scritti con i piedi ed un Marcoré un po’ intimidito, fanno pensare inizialmente ad una buona idea mal realizzata. Per non parlare del grande Giancarlo Giannini, in leggera difficoltà nei panni del papà romanaccio, alle prese con una pronuncia romanesca un po’ artefatta che lo costringe a lavorare di mestiere, come solo lui può fare, per dare credibilità.
In realtà il film è un motore diesel: una volta carburato, Marcoré si cala nella parte, appare la freschezza della Incontrada e la storia, comincia a viaggiare su toni lirici sempre più alti (la scena in cui i due fanno l’amore ne costituisce l’apice assoluto), ma anche di soffuso umorismo ed un pizzico di cinismo. Tale diventa il candido Nando, quando sente che sta crollando il pavimento sotto i piedi del suo amore, rivelando così un aspetto spiazzante che una trama così ordinaria non sembrava poter concedere.
Al solito, gli ambienti sono fantastici, curati al minimo dettaglio e raffinatissimi: Pupi Avati è un maestro in proposito.
Ma ciò che resta è questo Nando Balocchi, che dopo un’ora e mezza passata a sussurrare, dando voce sincera all’anima malinconica del film, si libera in un canto dalla voce rombante e potente: ce lo porteremo addosso per un po’, in quella parte di noi stessi timida e impacciata che tutti abbiamo nei confronti della vita.

Francesco Rivelli