Regia: Gabriele Salvatores
Sceneggiatura: Francesca Marciano, Niccolò Ammaniti
Fotografia: Italo Petriccione
Scenografia: Giancarlo Basili
Costumi: Florence Emir, Patrizia Chericoni
Montaggio: Massimo Fiocchi
Interpreti: Giuseppe Cristiano, Dino Abbrescia, Aitana Sánchez-Gijón, Diego Abatantuono

Recensione n.1

Tratto dal bel romanzo di Niccolò Ammaniti – che dosa sapientemente tenerezza e crudeltà, suspense e poesia, introspezione psicologica e azione – protagonista assoluta del film di Gabriele Salvatores è la campagna assolata e pigra del nostro Sud. Come sottofondo lo stridio delle cicale, Michele (il bravo Giuseppe Cristiano) trascorre le giornate in bicicletta insieme a una piccola banda di amici, all’interno della quale si evidenziano già le dinamiche di gruppo e i rapporti di forza, tipici dell’età adulta. Fra una gara e una punizione, il bambino incapperà in una botola rudimentale, in cui è tenuto prigioniero un suo coetaneo. Michele scoprirà presto che il paese tutto, e quindi anche i suoi genitori, non è estraneo alla vicenda.
Il film segna la svolta matura del regista, che presta la propria professionalità e personale sensibilità al racconto di una storia tutta italiana. Non manca neppure un implicito accenno alla dialettica nord-sud, che tanto ha segnato i destini del nostro paese. Abatantuono, imbruttito e invecchiato ad arte, merita di essere citato per la sua incontestabile bravura. Estremamente accurata la ricostruzione del periodo, eccellente la scelta della luce, la macchina da presa ad altezza bambino sottolinea la prospettiva scelta.
Il film, che è in bilico fra il racconto di formazione e il thriller, ben si presta anche a una lettura psicoanalitica: la dolorosa perdita dell’innocenza, tappa necessaria alla crescita, comporta l’accettazione della propria ombra e quindi del proprio doppio. “Io non ho paura” parla a tutti e piacerà ai più: un’ennesima riconferma del momento felice che vive il cinema italiano.

Mariella Minna

Recensione n.2

° Estate, fine anni ’70: in un villaggio dell’Italia meridionale circondato da campi di grano pronti a essere mietuti, il decenne Michele scopre, in un buco vicino a un casolare abbandonato, un bambino della stessa età di nome Filippo. Alla televisione scopre che è stato rapito e che di mezzo c’entra anche suo padre Pino: ma gli sfugge il perché di tanta cattiveria. Tratto dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti (anche sceneggiatore insieme alla delicata Francesca Marciano), l’opera forse più matura e sensibile di Salvatores e uno dei più bei film italiani degli ultimi anni: completamente girato a misura di bambino, con il terzo occhio della cinepresa a basse altezze come a restituire la narrazione in prima persona di Ammaniti, è uno scavo intimista e assai complesso sull’innocenza dell’infanzia ma anche sulla sua crudeltà che richiama, in questo suo mescolare realtà nazionale (biscotti Ringo e Kit-Kat, Emilio Fede che legge il Tg1 e gondole veneziane) e favola senza tempo/senza luogo, opere poco conosciute come il mirabile Riflessi sulla pelle o certe descrizioni di provincia americana del migliore King. In un gotico lucano-pugliese in cui tornano evidenti temi cari al regista come quelli della fuga e dell’incomprensione tra padri e figli, diventa straordinaria la quotidianissima vicenda di un’amicizia tra due bambini: magicamente sospeso in un’atmosfera di frontiera – tra corse a perdifiato in mezzo a spighe di grano mosse dal vento e gruppetti di ragazzi che paiono clan mafiosi, minacciose ma effimere tempeste estive e animali non così rassicuranti – lo sguardo partecipe di Salvatores è lucidissimo e sommesso nel raccontare la realtà con gli occhi di un bambino e nel dare corpo ai tipici processi pre-adolescenziali, come quelli dell’identificazione (all’inizio metaforico, alla fine addirittura corporea), della paura e del suo dissolvimento, dello svelamento, della partecipazione e dell’immedesimazione, della fortissima autoconsapevolezza (al presunto mostro ormai diventato un comune bambino, il protagonista dirà: “sono Michele Amitrano, Quinta B”). Di una miracolosa esemplarità la sceneggiatura, con dialoghi scarni e troppo autentici (la bambina che parla per ossimori senza rendersene nemmeno conto: “gli dici di strillare più piano”) per non commuovere o far sorridere. Giusto qualche sbavatura di stile (per esempio la prima soggettiva sfocata di Filippo che interrompe la coerenza narrativa adottata fino a quel momento) o qualche perdonabile eccesso per esigenze di copione, una manciata di attori perfetti (con un appunto sul cattivo di Abatantuono), un uso sapientissimo delle riarse locations meridionali, un montaggio serrato senza essere invadente o sperimentale e un meraviglioso quartetto d’archi di Ezio Bosso e Pepo Scherman in colonna sonora: per una volta, un film del napoletano Salvatores ha accontentato critica e pubblico, anche perché l’impasto di analisi colta dei sentimenti e di cinema spettacolar-popolare a uso delle masse è davvero inappuntabile. Bellissimo il finale fiabesco, con il primo invisibile ingresso della polizia nella storia: il romanzo, al proposito, era più ambiguo, ma Ammaniti stesso – che pensa le sue opere quasi come film su carta – ha dichiarato che se lo avesse pensato in terza persona (come un regista inevitabilmente fa), sarebbe stato identico. Menzione d’onore per il titolo, con quel soggetto autoreferenziale tipico del fortissimo ego dei bambini. DRAMM 108’ * * * *

Roberto Donati

Recensione n.3

Quando fa caldo, al Sud, quel caldo umido che ti si appiccicano le mutande al culo, l’impressione e’ di respirare sudore. Quando fa caldo e non tira vento, o peggio ancora c’e’ lo scirocco, in estate al sud qualunque attivita’ umana sembra impossibile, anche le piu’ piacevoli, anche giocare.
Di questo caldo nella Melfi di Salvatores non c’e’ traccia, o meglio ci sono solo sintomi: il petto sudato di una donna che stira davanti a un ventilatore, forse unico segnale dell’oppressione che Ammaniti nel libro riesce a farci subire pagina dopo pagina.
Salvatores sceglie invece una fotografia tersa e patinata che mi ha reso difficile appassionarmi a una storia viscida di sudore e poverta’: e’ bello, questo film, intendiamoci, e’ bello perche’ tratto da una storia notevole ed e’ bello perche’ e’ ben girato, ma la luce e’ sbagliata, almeno per me.
Io quel caldo – che Salvatores ha saputo raccontare in Sud – avrei voluto percepirlo, invece di vederlo sacrificato a piccoli deliziosi quadretti che sembrano suggerire un’aria tersa e limpida che a Melfi, in quegli anni, durante quella storia, proprio non ci stava.

Mafe

Recensione n.4

La presente stagione cinematografica sarà ricordata come quella fondamentale per il rilancio del cinema italiano. Non di capolavori autoriali ha bisogno la nostra industria per vivere nel mercato contemporaneo, ma di credibilità delle storie e identificazione del pubblico con i personaggi. Finalmente sembra che le sinossi, i dialoghi, le coloriture dei caratteri abbiano raggiunto nella nostra cinematografia un buon livello d’affinamento, capace di riconquistare il pubblico. A giovarsi della nuova aria fresca sulla celluloide italiana giunge anche Gabriele Salvatores. Salvatores è indubbiamente un regista dal discreto bagaglio tecnico e visivo, inaridito però dalla standardizzazione della propria poetica autoriale. Se ad inizio carriera erano accettabili, a tratti anche originali, le sue storie d’amicizia maschile e di compartecipazione alla fuga dai valori imposti dal mondo contemporaneo consumistico, in breve tempo la sua cinematografia era diventata ripetitiva e stereotipata, direi supponente. Alcuni tentativi sperimentali (Denti e Nirvana) con alterne fortune avevano provato il cambio di rotta e di registro. Scherzo del destino, è proprio un film classico, intenso, compatto, commovente come Io non ho paura a rilanciare il nome del regista.
Il bel romanzo di Ammaniti è molto cinematografico. Lo stesso autore non ha mai negato un’importante influenza del cinema sulla sua vena artistica. Ammaniti è anche lo sceneggiatore del film. Non c’è da stupirsi quindi se la pellicola segue, pedissequamente, il romanzo. Ritroviamo nel lungometraggio dialoghi efficaci, che ci consegnano personaggi disegnati con cura e sottigliezza letteraria (Abatantuono, molto meno gigione, è più credibile). Certo la pagina scritta è più ricca di mistero e di derive, chiuse fra le righe dell’immaginazione, il cinema è opera visibile e udibile e quindi realista per natura. Salvatores, pone la camera ad altezza del bambino protagonista. Il punto di vista volutamente ingenuo rifugge l’onniscienza. Lo spettatore è invitato a scoprire il mistero della vita con gli occhi del protagonista. Dal punto di vista strettamente cinematografico la fotografia ha la patina dorata dei filmini in superotto. I filmini amatoriali che negli anni settanta restituivano con immagini cromatiche particolari la vita delle famiglie italiane. L’uso del colore sostituisce le sottigliezze linguistiche, l’iperrealismo fotografico trasfigura nella favola e nella magia. L’ambientazione nei profondi campi di grano del sud Italia, baciati perennemente dal sole, permette all’autore di giocare con gli estremi, l’oscurità e la luce.
L’oscurità è il mistero che si cela sotto le spighe, la miriade d’animali e insetti che vivono nascosti.
La terribile e mostruosa natura del sottosuolo che si oppone nettamente alla splendida aria e lucentezza del paesaggio superiore (a volte fotografato troppo plasticamente, lo fa sembrare preso da uno spot della Barilla…). La luce e il colore appartengono al mondo dell’infanzia, l’oscurità e la penombra a quello degli adulti. Filippo il bambino rapito è calato in un buco e si crede morto, Michele dovrà confrontarsi con l’oscurità per crescere. Il rapporto fra mondo degli adulti e infanzia è inesistente. Sono poli contrapposti che non si toccano, proprio come la luce e l’ombra.
Nel mondo infantile il confine fra bene e male è a volte indistinto. La crudeltà è presente nei giochi, mentre ci si prende gioco della paura, attraverso la favola e la fantasia. Mitizzando il reale, preservando il sogno e il mistero della vita. Salvatores ha finalmente messo al servizio della storia lo sguardo e la tecnica. Molto più trattenuto che nelle precedenti pellicole, ha reso fertile il confronto con la pagina scritta. La camera mobile gioca con gli sguardi in un continuo rimando fra gli opposti. Alto e basso, esterno e interno, piccolo e grande. Le geometrie complesse tracciate dai movimenti della macchina da presa rendono piena l’immagine. A volte l’assimilano, per epica, alla cinematografia western. A parte qualche scivolone nel finale e una musica bella ma ridondante, il lungometraggio è asciutto, preciso. L’esposizione chiara e lineare, leva una certa patina di mistero al romanzo, ma gli rende ugualmente giustizia. Io non ho paura è un cinema che illustra e nello stesso tempo ricerca sui propri mezzi. Sicuramente confronta i mezzi espressivi cinematografici con quelli letterari e non si vergogna di generare un sano e fecondo spettacolo Hollywoodiano.

Paolo Bronzetti

Recensione n.5

Piena estate, immense distese di grano, la calma e il silenzio della campagna infuocata, il rumore sordo delle cicale, il verso di aquile alte e lontane, il cigolio di quattro biciclette, gli schiamazzi di quattro ragazzi. Vanno sempre in bicicletta loro, giocano così, e qualche volta ci scappa anche qualche gara, con penitenza per chi perde. E’ così che Michele, uno dei ragazzi, si offre un giorno di fare la penitenza al posto della femmina del gruppetto, grassottella, da sempre vittima del capo, il Teschio. In bilico su una trave sospesa in una casa abbandonata, e poi giù con un bel salto. Penitenza riuscita. Almeno fino a quando non si perde gli occhiali della sorellina, che gli cadono dalla tasca. Se ne stanno andando, quando Michele deve tornare indietro da solo per recuperare gli occhiali. Li trova, sono su una bella lamina luccicante ricoperta di fieno. Ci cammina sopra, rumore sordo, sotto deve esserci il vuoto. Alza la lamina, un buco. Si affaccia, una coperta e un piede sporco. Da quel momento il bambino non avrà più pace, si estrania dal gruppo e impara a convivere con il suo orribile segreto. E’ come se fosse suo fratello, un fratello isolato e tenuto in un buco perché pazzo, così fantastica Michele, mentre tra i due si instaura pian piano un rapporto di amicizia. Sono due mondi, due estrazioni sociali, due realtà completamente differenti e questo contrasto è ben rappresentato anche visivamente: uno moro e scuro, l’altro biondo con la pelle chiara; il primo alto, forte e robusto, l’altro minuto, debole e arrendevole. E’ per questo che quando si scoprono entrambi iscritti alla classe quinta e pronunciano sorridendo “siamo uguali”, il momento risulta quasi commovente. Sembra quasi la vecchia storia del ricco e del povero, Michele aiuterà pian piano il bambino a recuperare fiducia, a fargli capire che non è morto. Lo aiuterà a ricominciare a vivere. Gli stati d’animo, le sensazioni, le forti emozioni sono tutte ottimamente rese sullo schermo dalla ben riuscita regia di Salvatores: è l’uso delle soggettive che permette allo spettatore di entrare nella storia, di vivere insieme ai due bambini i momenti più intensi. E’ per questo che il film coinvolge così tanto. Sono tutte in soggettiva le emozioni più grandi: le corse nei campi sfiorando con la punta delle dita il grano; la prima volta che Michele guarda dentro il buco; e soprattutto quando Michele porta per la prima volta il bambino fuori dal buco. Lo porta in spalla come un gigante buono, il bambino fa fatica ad aprire gli occhi per la troppa luce, e a questo punto si alternano più volte schermo nero e visione sfuocata del campo di grano, proprio a voler riprodurre la reale sensazione di difficoltà del bambino. Molto suggestivo.
E’ da notare anche il forte realismo con cui vengono rappresentati i personaggi e i luoghi: la straordinaria semplicità dei costumi, l’essenzialità (non senza ironia) dei dialoghi, la nudità delle case arroccate e dei muretti, la povertà degli oggetti rappresentati (basti pensare alla lavatrice vecchia e rovinata su cui per giocare i ragazzi tiravano i sassi, quale unico oggetto presente nella scena; o ai due pomodori sul tavolo, come presunta cena dei ragazzi; o alle stesse biciclette vecchie). Tutto è molto semplice e scarno, essenziale, reso al minimo, e proprio per questo, vero, reale. Anche questo contribuisce a coinvolgere lo spettatore. Da notare poi una sottile nota stilistica. Avviene un cambiamento di colori, che inevitabilmente comporta un cambiamento nella storia: dai colori caldi, predominanti nella prima parte del film, sole, grano, e tutto ciò che appartiene all’universo semantico dell’estate, all’uso dei colori freddi, predominanza di azzurri e grigi, soprattutto quando viene rappresentata la casa, e guarda caso in esterno la pioggia. Piove a dirotto quando Michele scopre che il bambino non è più nel buco. Il cambiamento a livello cromatico preannuncia quindi un forte cambiamento a livello narrativo. Il momento di cesura, molto significativo all’interno del film, è quando Michele vede le prime trebbiature: trattori che passano sui campi, rasando il grano, e creando dei veri e propri sentieri.
E’ una storia intensa, drammaticamente vera, dove è ben presente il contrasto tra il mondo adulto e quello dei bambini, il primo ostile, misterioso, arrabbiato (nonostante qualche sprazzo di serenità all’interno del nucleo familiare), l’altro puro, innocente, di una semplicità disarmante. E saranno proprio i bambini a dare una lezione agli adulti, una lezione sui valori che veramente contano nella vita. Un finale ad effetto, emozionante, fa restare davvero col fiato sospeso.

Marta Fresolone