Recensione n.1
Arriva anche in Italia, direttamente dall’ultimo festival di Berlino, l’attesissimo “Solaris” di Steven Soderbergh, remake americano del capolavoro di Andrej Tarkovskij del 1972. La storia, tratta dall’omonimo romanzo dello scrittore polacco Stanislaw Lem, è quella dello psichiatra Kelvin che, rimasto vedovo dell’amatissima ed affascinante moglie Rheya, viene mandato nella stazione spaziale Prometheus, con il compito di indagare sugli strani effetti che la vicinanza del pianeta Solaris provoca sull’equipaggio. E Kelvin sperimenterà sulla propria pelle l’influsso paradossale di Solaris, capace di far rivivere situazioni e rapporti passati e di riportare in vita, anche solo nella propria testa, le persone care perdute. Malgrado l’impegno di George Clooney, protagonista assoluto di questo film – si dice che per avere la parte abbia tampinato per mesi il regista e, una volta ottenuta, sia arrivato a lavorare fino a 17 ore al giorno – “Solaris” non riesce a convincere. Infatti manca nel nuovo tentativo di Soderbergh quella complessità e raffinatezza psicologica che hanno fatto della pellicola di Tarkovskij un vero capolavoro. E se il fatto di concentrarsi sulla storia d’amore tra Kelvin e sua moglie corrisponde ad una scelta voluta del produttore e dallo stesso regista, anche questo contribuisce a rendere il film meno sfaccettato ed interessante e a togliere alla vicenda quella magia e quel mistero che tanto hanno affascinato gli amanti del “vecchio” “Solaris”.
Nella dimensione onirica della metaforica stazione spaziale, si avverte un’atmosfera irreale e fantastica, dove i dubbi esistenziali si mescolano ai sensi di colpa ed alla gioia di poter avere una seconda possibilità. Ma tutto questo viene reso dal regista senza coinvolgimento, come se il distacco dalla pellicola suggerisse un distacco dalla fantasia, a volte ingannevole e dannosa. E questa lontananza lascia lo spettatore fuori dalla vicenda amorosa e di coscienza, non permettendo un’immedesimazione e non insinuando il dubbio sulla possibilità di rivivere il passato in modo diverso, che è alla base della storia. Grande prova, comunque per George Clooney, che si cimenta in un ruolo difficile, non sempre riuscendo ad esserne all’altezza, ma dimostrando comunque di sapersi mettere in discussione. Peccato che una ripresa del suo bel fondoschiena nudo gli sia valsa la censura: infatti, in America il film, con grande dispiacere dell’attore, è stato vietato ai minori di 13 anni.
Francesca Manfroni
Recensione n.2
Cosa avra’ spinto Steven Soderbergh ad affrontare il rischioso remake di un film difficile come quello di Andrej Tarkovskij del 1972? L’ennesima sfida? Il tentativo di rendere digeribili alle nuove generazioni concetti filosofici? La passione per un cinema che prova a uscire dalle convenzioni del blockbuster?
Beh, qualunque fossero le intenzioni del regista, il risultato e’ fallimentare su tutti i fronti. Se nell’originale russo il ritmo quasi immobile contribuiva a creare un’atmosfera in grado di porre domande non banali sul senso dell’esistenza, il remake di Soderbergh si traduce in un piatto esercizio di stile, dove la lentezza e’ lentezza punto e basta e produce un contagioso effetto letargico. Non bastano dialoghi in cui un gruppo di intellettualoidi modaioli si scambiano battute tipo “Sono qui ma potrei essere li’!” “Dove veniamo e’ dove stiamo andando!” per instillare la scintilla di un dubbio amletico nell’incauto spettatore. Ma cio’ che manca al film e’ soprattutto un equilibrio tra le due anime inquiete del regista: l’autore che non accetta compromessi e il macina successi da botteghino. Da una parte quindi una riflessione sull’uomo, il senso dei ricordi, il potere dei pensieri, dall’altra un aggancio continuo alla razionalita’, con una storia racchiusa forzatamente tra inizio, sviluppo e conclusione. Quello che viene spiegato, pero’, risulta banale, mentre i silenzi non si ammantano di mistero ed evocano solo noia. Non aiutano certo a dare respiro al film i personaggi e gli interpreti: Jeremy Davis, sotto il peso di monologhi lunghi e brutti, rende lo straniamento del suo personaggio scimmiottando una “follia” fatta di gesti artificiosi che non comunicano alcunche’; Viola Davis ha le battute peggiori del film (non ci vengono risparmiati i sofismi tecnici con chicche tipo “Potremmo bombardarli con una spruzzata di antibosoni!”) e si limita a sgranare gli occhi da pesce; la bellezza spigolosa della gelida Natasha McElhone mal si adatta alla capricciosa e disturbata fidanzata del protagonista e George Clooney, nonostante gli sforzi, non sembra credere mai a cio’ che e’ costretto a dire.
E’ proprio il suo girovagare con occhi da cagnone in cerca dell’osso (in alternativa alla veglia) a cozzare in modo solo stridente con l’immagine da piacione a cui ci ha abituati. Nella piega sentimentale che prende il racconto manca inoltre, e sarebbe fondamentale dati gli sviluppi, qualsiasi alchimia tra i protagonisti, che recitano una passione al di la’ del tempo e dello spazio ma non la trasmettono. Anche visivamente il film si limita a citare illustri predecessori, da “Alien” a “2001 – Odissea nello spazio”, senza aggiungere nulla e, soprattutto, non infondendo alcuna fascinazione al viaggio nella psiche umana che e’ alla base dell’interessante soggetto. Che alla fine, tradotto in immagini, pare una puntata dilatata di “Spazio 1999”. Piu’ curata e pretenziosa, ma meno illuminante.
Luca Baroncini
Recensione n.3
“oltre ogni cosa l’Oceano, oltre l’Oceano il nulla”
Solaris di Soderbergh sicuramente non è un film di fantascienza, prima di tutto perché in esso Soderbergh non ha voluto rappresentare nessuna idea di futuro (“penso che il futuro sia ora”), e poi perché non c’è film di fantascienza senza uno spirito di frontiera “spaziale”, e Solaris non solo non azzarda il tempo futuro, ma non realizza neppure alcun viaggio nello spazio (“ci accorgiamo che il futuro è qui”). In questo modo il film di Soderbergh, da una parte, si situa completamente al di fuori dei confini del genere della fantascienza (sia di quella “pop” sia di quella “delle idee”), e dall’altra, si lega solo superficialmente all’originale di Tarkovskij. Se l’idea di Tarkovskij era, infatti, di utilizzare le forme del viaggio nel tempo e nello spazio per comporre un’allegoria del viaggio di ogni uomo nel mistero della vita (felicità, amore, morte), Soderbergh, abbandona l’operazione intellettuale dell’astrazione per una più mediata (e banale) metafora che riduce il discorso alla dimensione temporale (il passato…) e applica la forma del melodramma sentimentale al tema della ciclicità del tempo (… che ritorna come una seconda possibilità). Quindi è più corretto definire il film di Soderbergh come melodramma del tempo (più che nello spazio), in cui la complessità metafisica e antropologica dell’originale è “banalizzata” dalla decisione di abbandonare ogni discorso razionale (la Solaristica dell’originale), per privilegiare il discorso patetico (il potenziale emotivo dell’aggiunta romantica).
C’è invece un aspetto dell’originale che sopravvive anche nel remake: il lavoro sulle forme, temporali e spaziali da un lato, del racconto dall’altro. Se per Tarkovskij la forma imprescindibile del contenitore è il futuro, perché è all’interno dell’abnorme avanzamento temporale che si comprende, per paradosso, la tragedia dell’inadeguatezza umana e della memoria come unica sopravvivenza dell’esistenza di un passato, e al contempo sola garanzia di futuro per l’uomo mortale; è tuttavia nell’avvicinamento all’oceano di Solaris, che la sostanza temporale privilegiata dall’autore russo emerge essere la frantumazione del tempo del passato in un puzzle di impressioni (sogni), ricordi (oggetti), immagini (video), e ossessioni (doppi), che rappresentano l’unico bagaglio emotivo e razionale con cui l’uomo è chiamato al confronto con il mistero dell’infinito ordine (kósmos) della natura. Questa contaminazione e conseguente relatività delle forme temporali, in Tarkovskij, è sottolineata anche dall’opposizione con uno spazio assoluto (il parco sulla Terra, la base spaziale) perfettamente determinato, in grado di suggerire l’idea di una sopravvivenza infinita (l’elemento acqueo) e di una razionalità potente (l’architettura spaziale). Ma se lo spazio assoluto è dominato dalla forma dell’ordine e della stabilità (naturale o architettonica), è nello spazio relativo (il movimento dei personaggi negli ambienti) che Tarkovskij introduce l’idea della frammentazione. I personaggi appaiono continuamente inseriti in uno spazio fluttuante, le distanze, le relazioni spaziali sono disattese, rovesciate, mischiate in un labirinto percettivo che ha nella forma circolare la mappa di lettura privilegiata. Lo spazio circonda i personaggi, rinchiudendoli, e restituendo loro solo parziali squarci di visuali (visioni), di un tutto che sfugge all’unità della comprensione. All’interno di questo sistema di riferimento, è naturale che il racconto segua un andamento perfettamente circolare, anzi è necessario. Non avrebbe senso narrare un progresso oltre un limite insormontabile. L’oceano di Solaris è destinato a non essere navigato. Non si deve oltrepassare il limite, altrimenti la maledizione è pronta a colpire il suo Faust con la promessa di un’eternità che assume i connotati di una dannazione senza speranza di alcun conforto. Il protagonista alla fine ritorna al punto di partenza, di più, il suo punto di partenza diventa solo un indeterminato punto geografico in una mappa di un mondo sconosciuto e inconoscibile. Il viaggio nello spazio interiore si è concluso con l’approdo su di un mondo che rimane determinato da soli limiti, come un’isola che definisce la propria terra ferma in opposizione all’immensità del mare che ricopre tutto il resto.
Soderbergh è un grande regista, ma la sua furbizia lo è ancora di più. Nel primo tempo il nuovo Solaris stupisce. Senza perdersi troppo in un confronto improponibile (Tarkovskij è uno dei più grandi autori del cinema), e infruttuoso (Tarkovskij è anche uno dei più difficili), decide di ridefinire un’estetica dello spazio che rivela possedere un’originalità e una coerenza proprie. Soderbergh è un maestro nell’inserire il suo attore preferito (Clooney) all’interno di un ambiente, fornendo precise coordinate per identificare la solitudine e la distanza (questa sì siderale) dell’uomo nei confronti del mondo che lo circonda. Se Tarkovskij intesseva un delicato preludio tra il paesaggio naturale e il suo protagonista, e lo precipitava poi in un incubo metropolitano claustrofobico e incessante, Soderbergh si limita a tracciare un quadro più statico in cui preferisce evidenziare le piccole relazioni e i nascosti rimandi che rendono in poche inquadrature la problematicità del personaggio di Kris Klein. Ma Soderbergh non ha il genio visionario di Tarkovskij, e ce ne accorgiamo subito alla prima caduta di stile: il viaggio della navicella del dottor Kline sulla base spaziale intorno a Solaris. Soderbergh nell’unica inquadratura dedicata allo spazio, riesce a cancellare in un colpo la potenza epica di Kubrick, e il lirismo delle forme di Tarkovskij, vendendo il suo talento alla peggior iconografia new age. Per fortuna le forme dello spazio tornano ad essere protagoniste all’interno della base spaziale, dove Soderbergh continua il suo lavoro sulle relazioni dello spazio con i personaggi. Purtroppo il limite di Soderbergh è la sua incredibile furbizia, e non appena viene introdotta la protagonista femminile e il tema romantico, il regista di Baton Rouge si dimentica completamente di tutto quello che aveva costruito fino allora intorno al discorso sulle forme spaziali, e trasforma la dolente e penetrante riflessione di Tarkovskij in un convenzionale melodramma perfettamente al passo con i tempi (televisivi) e i gusti (femminili) contemporanei. Soderbergh perde di vista la coerenza propria e dell’originale, e si preoccupa solo d’introdurre un finale in cui l’eternità del mistero della natura (emblematicamente simboleggiato dalla semplicità dell’elemento acqueo) viene sostituito con la sempiterna forza dell’amore (e il bacio fra i due protagonisti diventa la nuova locandina del film). Non c’era nessun bisogno di prendere un film di fantascienza per fare una storia d’amore, né tanto meno di disturbare Tarkovskij per realizzare una storia così superficiale, ma soprattutto non vedo nessuna giustificazione plausibile all’ipocrisia di presentare un progetto profumatamente finanziato dalla Fox (47 milioni di dollari), come un film sperimentale, e di affermare che si tratta di un film provocatorio quando viene palesemente incontro alla maggior parte del pubblico cinematografico (le donne), ed ha programmaticamente già scommesso su quello a cui questo tipo di pubblico è più interessato (il nudo posteriore di Clooney).
Massimiliano Troni da “Gli Spietati”