Antwone Fisher (Derek Luke) è un marinaio di colore che non riesce a controllare gli eccessi di ira e le esplosioni di collera scatenate soprattutto da inopportuni commenti sul colore della sua pelle. Il conflitto e lo scontro anche fisico con altri commilitoni lo costringerà a subire una punizione e, in particolare, a incontrare uno psichiatra (Denzel Washington) che cercherà di infrangere il muro di silenzio, dietro al quale ha nascosto i propri segreti e le proprie paure. Inizialmente restio alla terapia, si lascerà andare poi come un fiume in piena al flusso dei ricordi, nel tentativo di riprendere il filo di un’esistenza martoriata fin dai primi anni di vita. Venuto alla luce in un istituto penitenziario, la madre non lo verrà più a riprendere nell’orfanotrofio a cui è stato momentaneamente affidato e sarà quindi adottato da una famiglia “perbene” e religiosa. Il capo famiglia è un sacerdote, la “matrigna” una donna di chiesa. Eppure, dietro all’apparente tranquillità e solidità che le quattro mura domestiche dovrebbero garantire, si nascondono tutte le forme di violenza e sopraffazione possibili, fino all’abuso sessuale di un minore (un bambino di sei anni) in grado sì di capire ma non di difendersi. Nell’incontro con lo psichiatra, Antwone riacquisterà dignità e fiducia in se stesso, avrà la forza di ripercorrere a ritroso il proprio passato, di ritrovare le proprie radici, di guardarsi allo specchio e vedersi sotto una nuova luce. Ma il rapporto affettivo instauratosi con il medico sortirà un beneficio biunivoco. Lo psichiatra, che si stava gradualmente allontanando dalla moglie che non riusciva ad avere figli, riconquisterà la propria dimensione affettiva e, quindi, la propria serenità.
Questa in breve la trama di un film che non offre grandi spunti di riflessione né particolari momenti di intrattenimento. Un protagonista nero che si muove fra neri, niente o quasi della dialettica e della contraddizione americana fra neri e bianchi è rappresentata nella pellicola. I genitori adottivi sono di colore eppure infliggono pene e sofferenze ai figli adottivi chiamandoli “negri”, in senso ovviamente dispregiativo. Lo psichiatra spiegherà che si tratta della “sindrome dello schiavo”: chi cioè ha patito pene e punizioni corporali anche fisiche tenderebbe a infliggerle ai propri discendenti, anche a distanza di numerose generazioni. Una sorta di coazione a ripetere la violenza e a perpetrarla sui più deboli. Una spiegazione forse plausibile ma sicuramente conciliante dal momento che, in nessun modo, incrina l’immagine di una società – quella americana – che ancora oggi fa i conti e a fatica con la propria multietnicità.
La regia rispecchia l’assunto conservatore: è patinata, godibile, hollywoodiana nel senso pieno del termine, risparmia sapientemente la violenza pur accennandovi. E così è la recitazione: classica, non mancano gli sguardi in macchina, i montaggi alternati delle scene che ritraggono i co-protagonisti, i primi piani abbondano… cosa non si darebbe per catturare a sé lo spettatore e la sua benevolenza? Solo che da “Via col vento” sono passati decenni, in senso cinematografico ma soprattutto civile. E lo spettatore più accorto non potrà non rimanere deluso da quello che non è altro che un “polpettone” ben infarcito di banalità ad uso e consumo di un pubblico ormai assuefatto al tedio televisivo.
Mariella Minna