David Twohy non ama le rigide pareti del “genere” cinematografico, ma preferisce la contaminazione. Lo ha ampiamente dimostrato nel precedente e riuscito “Pitch Black” in cui fantascienza, thriller e horror procedevano in parallela armonia regalando un onesto film di puro intrattenimento. Con “Below” cambia l’amalgama ma non l’idea di base. Questa volta tocca infatti al genere bellico incontrare il paranormale. Per restare alla stagione in corso, e’ come se “K – 19” incrociasse “La nave fantasma”, ma senza l’energia di una Bigelow sottotono e il moderato divertimento del giocattolone di Steve Beck. L’ibrido titilla ma finisce quindi per non conquistare. Alla prima parte, preparatoria e disseminatrice di tasselli, segue una confusa resa dei conti, in cui gli elementi del puzzle faticano a formare un’immagine definita. L’idea di non spiegare tutto, e di lasciare aperta la strada a possibili differenti interpretazioni, e’ apprezzabile, perche’ evita gratuita’ e virate prevedibili, ma la sensazione e’ che la confusione narrativa che ne deriva nasca piu’ dall’incapacita’ di gestire le implicazioni della sceneggiatura che da una precisa scelta stilistica. Quanto alla messa in scena, “Below” sconta chilometri di pellicola incentrati sulla clustrofobia di un sottomarino, in cui il luogo angusto diventa ideale cassa di risonanza per l’esplosione di tensioni e conflitti. Il problema e’ che lo spettatore non ha mai piena coscienza dei luoghi dell’azione e fatica a capire le difficolta’ relative agli spostamenti all’interno dello stretto abitacolo. La situazione diviene ulteriormente confusa nella parte finale, dove l’assenza di luce offre ghiotte opportunita’ alla bella fotografia di Ian Wilson, ma riduce ancora di piu’ il coinvolgimento. Allo spettatore non resta quindi che osservare con passivita’ le conseguenze delle azioni, senza riuscire a vivere problemi e dubbi del sempre piu’ risicato equipaggio. E’ inoltre curioso notare come gli esterni stridano spesso con gli interni: e’ difficile credere che il cetaceo meccanico che attraversa lo schermo abbia un interno come quello rappresentato nella finzione cinematografica. Forse abbiamo un immaginario troppo segnato dai tanti lungometraggi di guerra in cui siamo incappati, sta di fatto che le scenografie (non cosi’ opprimenti, comunque), il trucco, il sudore, tradiscono in piu’ di un’occasione la loro origine artificiale da teatro di posa. Nonostante le apprezzabili intenzioni, e una indiscutibile professionalita’ d’insieme, si finisce cosi’ per cedere allo sbadiglio e il risultato fatica a non naufragare insieme al sottomarino e al suo mistero.

Luca Baroncini