Recensione n.1

Dieci sconosciuti, una divetta (Rebecca DeMornay), il suo autista (John Cusack), un poliziotto (Ray Liotta) in compagnia di un omicida (Jake Busey), una prostituta (Amanda Peet), una giovane coppia (Clea DuVall e William Lee Scott) ed una famiglia (John C.McGinley, Leila Kenzie, Bret Loehr), bloccati da un violento temporale si rifugiano in un desolato e spettrale Motel, dove vengono ospitati dal taciturno custode (John Hawkes). Qui gli ospiti assistono, impotenti, al susseguirsi di misteriosi e drammatici avvenimenti che mettono alla luce assurde analogie e inquietanti coincidenze tra le loro vite, ora più che mai in balia di un pericolo che non si vede, ma uccide con enigmatica precisione e efferato accanimento.
Presentato alla 49° edizione del Festival di Taormina, dove il regista nel lontano 1996 aveva già portato la sua opera prima “Heavy” (reduce dal trionfo del Sundance), “Identity”conferma Mangold, come una delle promesse del cinema statunitense, a metà tra Michael Bay e David Fincher. Dopo un acerbo contratto con la Disney, il regista, classe ’64, da anni ormai fa coppia fissa anche nella vita privata con la produttrice Cathy Konrad, che con la saga craveniana di “Scream” rappresenta un altro enfat prodige dell’industria cinematografica americana. Mangold ha di seguito firmato, anche come autore degli screenplay, pellicole come: “Copland”, “Ragazze Interrotte”, “Kate e Leopold”, per poi affidarsi, la sua prima volta, ad un altro sceneggiatore Michael Cooney (Jack Frost) per questo interessante atto unico all’insegna del cinema di prestigio.
Anche se attraverso facili cliché, un’ambientazione tra le più consumate nella storia del cinema, imbevuto di uno stile marcatamente derivativo, ma soprattutto prendendo spunto da un tema che sembrava ormai anacronistico anche per il più clonato filone americano, Mangold, confeziona comunque una pellicola efficace e spiazzante. Dalla “La finestra sul cortile” ma soprattutto attraverso “L’ombra del dubbio”, il film rende omaggio alla grande suspence hitchcockiana, sia grazie ad uno script denso di capovolgimenti di prospettiva, sia attraverso una regia isterica ma attenta a non perdere di vista quei dettagli che ben definiscono le psicologie dei personaggi e si animano dentro questo claustrofobico mystery thriller. Come spesso succede però la pellicola perde di vista, soprattutto nelle ultime scene, una credibilità già in bilico per alcuni debordanti sovraccarichi narrativi, sacrificando più di una volta la storia alle esigenze della messa in scena.
Nel complesso un’opera che pur non riuscendo a scrollarsi di dosso un insistente sospetto di mendace pretestuosità tipica di molti prodotti hollywoodiani, ha il merito, non da poco, di tenere costantemente col fiato sospeso anche il più navigato ed ubbioso spettatore.

Giuseppe Silipo

Recensione n.2

Sarà un caso, ma sempre più spesso le storie raccontate sul grande schermo descrivono malesseri della mente. Ed il confine tra la follia e la realtà è sempre più labile, meno certo. “Identità”, l’ultimo film di James Mangold, gioca proprio su questa ambiguità, mettendo in scena una finzione con tanti tratti di verità. La storia è quella di dieci persone che, in una notte di tempesta, trovano riparo in un motel dall’aria molto sospetta. Ognuno di loro ha un segreto e fugge da qualcosa. Tutto sembra sotto controllo fino a quando i dieci viaggiatori non iniziano morire uno dietro l’altro. Il colpevole si nasconde tra loro, ma nessuno riesce a capire quale sia il motivo degli omicidi.
Dopo la commedia romantica “Kate & Leopold”, Mangold cambia decisamente genere, mettendo in scena un thriller dagli evidenti richiami Hitchcockiani. I colpi di scena sono continui ed il più delle volte inaspettati ed anche il cast, composto da attori molto versatili come John Cusack, Ray Lotta, Amanda Peet, e Rebecca DeMornay, sembra decisamente azzeccato. Anche se non mancano richiami a “Il sesto senso” di M.Night Shyamalan, lo stile di “Identità” è molto meno surreale e la scenografia (il motel è stato completamente ricostruito in studio) molto più sobria ed essenziale. Inoltre, molti sono i riferimenti al giallo classico (come non pensare ai “10 piccoli indiani” di Agatha Christie?), che danno spessore alla trama, arricchendo i personaggi di sfumature ed inquietudini.

Francesca Manfroni

Recensione n.3

C’e’ poco da fare: il luogo isolato, l’interazione di personaggi che in altre circostanze non avrebbero niente da dirsi, la serrata sequenza delittuosa, l’importanza narrativa del clima, restano degli intramontabili “topoi” per chi si accosta al giallo, nel caso specifico con squarci di horror. Tutti i cliche’ vengono quindi rispetta i in “Identita’”, con l’unica variante di una soluzione del mistero inaspettata e non banale, che risolleva un po’ le sorti di un racconto fino ad allora entro i confini della piu’ spietata routine cinematografica. Non che sia l’originalita’ a tutti i costi a rendere un’opera interessante, ma la messa in scena di James Mangold sconta luoghi comuni e stereotipi in eccesso. In particolare, si fatica ad entrare in un’atmosfera di sospesa inquietudine. Suonano subito di maniera sia l’ambientazione (il motel stile Psycho bagnato costantemente dalla pioggia) che i personaggi (l’attrice fallita, la bella prostituta in cerca di redenzione, la coppia che scoppia, la coppia grigio borghese, il poliziotto duro e il detenuto facciadapazzo, il bambino introverso) e i dialoghi. Poi, e’ vero, non tutto e’ come sembra e il fantasioso dipanarsi della vicenda giustifica in parte la visione schematica adottata dal regista, ma durante la proiezione si finisce con il dare poco peso al ritmato succedersi degli eventi. Come se si fosse all’interno di un gioco di cui si conoscono le regole amemoria. Tutto risulta infatti troppo smaccato per poter solleticare, dalle coincidenze alle sfighe che gravano in una sola notte sul gruppo dei malcapitati protagonisti. Tra gli aspetti che colpiscono, oltre alla virata psicanalitica, il modo in cui i personaggi vengono presentati, con una narrazione frammentata e non lineare che li catapulta con prepotenza nella storia. Una volta dentro al motel, pero’, il conto alla rovescia dei cadaveri regala piu’ interrogativi che brividi e, nonostante il tentativo di uscire dalle convenzioni del genere, il film non lascia particolari strascichi, ne’ cinematografici, ma nemmeno di paura.

Luca Baroncini

Recensione n.4

IL KILLER DI (ORCH)IDEE
Ovvero come James Mangold scambiò Michael Cooney per il fratello gemello di Charlie Kaufman ma si dimenticò di farsi sostituire da Spike Jonze e finì per uccidere con un solo film dieci grandi film
James Mangold qualcuno pensa sia un autore (Dolly’s restaurant, Cop Land), qualcun altro pensa che sia un onesto mestierante che ha capito come attirare il grande pubblico (Ragazze interrotte, Kate & Leopold), qualcun altro ancora pensa sia un regista talmente in crisi da rubare dieci buone idee da altrettanti film senza riuscire a farne uno decente. Identità è un film abbastanza trascurabile da un punto di vista strettamente cinematografico, ma è interessante da un punto di vista clinico. Come sta il cinema del terrore contemporaneo delle ultime annate? Male, molto male. C’è chi punta tutto su una confezione patinata (Tattoo), c’è chi opta per l’esibizione di una grande tecnica (Darkness), c’è chi decide di accattivarsi il pubblico femminile con una lettura femminista-mistificatoria della realtà (The Ring), c’è chi rinuncia ad innovare e ricicla superficialmente scenari sociologici che hanno fatto la fortuna dell’horror del passato (28 giorni dopo). Identità di Mangold è un po’ la cartina tornasole del cinema dell’orrore di questi ultimi anni. Lo è per due motivi: prima di tutto perché è un film che tematizza la crisi di un’identità (discorso che si presterebbe facilmente ad una riflessione metafilmica1), poi perché è un film capace di racchiudere in sé tutti gli stereotipi tipici del cinema dell’orrore senza riuscire a proporre niente di nuovo, denunciando apertamente la propria impasse creativa2. Mangold insegue come una “orchidea selvaggia fantasmatica”3 il suo progetto di thriller, e nella sua follia non esita a lasciarsi dietro una scia di sangue degna del miglior slasher anni ’70… il primo a cadere è il cinema di Tarantino: dieci individui rimangono bloccati in uno sperduto Motel in una notte di pioggia, è il montaggio circolare alla Pulp Fiction ad introdurceli… [9]. Si tratta di una ex-diva del cinema con la puzza sotto al naso, il suo misterioso e solitario autista, uno sceriffo con il suo detenuto in attesa di trasferimento, una prostituta dal cuore tenero, una coppietta in dolce attesa, una famigliola male assortita, e naturalmente il “conducente della diligenza”: il proprietario un po’ matto un po’ alcolizzato del Motel. Alla minaccia invisibile degli indiani e agli spazi aperti della frontiera, Mangold sostituisce uno psicopatico in grado di colpire in qualsiasi momento e un ambiente ristretto e claustrofobico, ma l’idea del pugno d’eroi variamente caratterizzati in viaggio e minacciati da un pericolo incombente è la stessa di Ombre Rosse di John Ford… [8]. A volte in questo genere di film basta un’azzeccata location o un set perfettamente ricostruito in studio a fare la fortuna del regista (insieme alla caratterizzazione dei personaggi e all’atmosfera) e per la ricostruzione del Motel nel quale si trovano costretti a sostare i personaggi viene riesumato un altro cadavere eccellente: vi dice qualcosa il Bates Motel di Psyco? … [7]. Ma le cose per i nostri personaggi iniziano a mettersi male quando misteriosamente uno dopo l’altro cominciano a fare la fine dei Dieci piccoli indiani… [6]. Il senso d’inevitabilità non dà tregua ai sopravvissuti che come in una sequenza già scritta alla Final Destination ci lasciano le penne nei modi più assurdi… [5]. Ma ecco che Mangold sciorina la sorpresa finale (che tanto finale non è, visto che manca ancora una buona mezz’ora ai titoli di coda) stravolgendo un “giallo ad enigmi” in uno “psycho-thriller” in cui a rubare la scena è lo scontro di cervelli tra uno psichiatra e un detenuto psicopatico alla Il silenzio degli innocenti… [4]. Ma Mangold si ricorda per un attimo di non essere sul set di un film di Spike Jonze e optando per una conferenza stampa riparatrice dichiara in stato confusionale che “i suoi punti di riferimento in quanto a “film di paura” (sono) Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile)… [3], Ridley Scott (Alien)… [2], John Carpenter (La Cosa)”4… [1]. A questo punto non mi resta che andare a chiedere spiegazioni a quel simpatico alligatore che si aggira nelle paludi della Florida… a proposito vi ricordate quel film di Spike Jonze in cui uno sceneggiatore in crisi creativa non riusciva a portare a termine l’adattamento di un romanzo di successo, e che aveva un fratello gemello sceneggiatore di film commerciali che stava scrivendo un film sui serial killer dalla personalità multipla? Beh non andate a vederlo perché è una presa in giro. Nella realtà gli alligatori non mangiano gli scrittori di film commerciali a corto di idee. Altrimenti come si spiegherebbero in giro sugli schermi film di una noia mortale…
VOTO:… [0]

Massimiliano Troni de Gli Spietati