Regia Larry Clark, Ed Lachman; Sceneggiatura Harmony Korine; Montaggio Andrew Hafitz; Fotografia Larry Clark, Ed Lachman; Attori: James Ransone, Tiffany Limos, Stephen Jasso, James Bullard;
Trama:
Quattro ragazzi alle prese con il sesso, la violenza, i divieti, le responsabilità. Amore e odio, libertà e oppressione vengono alla luce nella tranquilla cittadina di Visalia, in California.
Recensione n.1
Provocazione gratuita o arguto specchio del grigiore dei tempi? Il dubbio, quando si parla di Larry Clark (qui co-regista insieme a Ed Lachman, apprezzato direttore della fotografia per Wenders e Bertolucci) e’ piu’ che lecito, visto che l’esordio del 1995, con “Kids”, lasciava trasparire un compiacimento di dubbio gusto. Con “Ken Park”, pero’, lo stile si e’ evoluto: niente piu’ sgranature da film verita’, ma una bella fotografia curata dallo stesso Lachman e, soprattutto, una morbosita’ che sfuma in indifferenza, un’assenza di rielaborazione che colpisce sia i protagonisti che lo spettatore. Lo stesso vuoto dei personaggi si trasmette cosi’ al pubblico, che finisce con il subire le tante varianti sessuali mostrate e gli eccessi di violenza, senza particolare trasporto.
Il soggetto e la sceneggiatura, elaborati da Harmony Korine (gia’ regista del dogma “Julien Donkey Boy”) permettono di entrare nella squallida quotidianita’ di alcuni ragazzi e delle loro famiglie che vivono a Visalia, piccolo paese californiano. Le casette a schiera racchiudono pulsioni inespresse e insoddisfazioni, ma soprattutto una rabbia feroce che impedisce a tutti i personaggi di trovare un equilibrio, o anche solo di cercarlo. Il film non offre soluzioni, ma sceglie un’estremizzazione dello sguardo lasciando allo spettatore il compito di motivare quanto esibito. Un cinismo di fondo trasforma ogni provocazione in normalita’ e punta il dito sull’inefficienza della famiglia, a cui viene indirettamente riconosciuto un ruolo fondamentale nella crescita dell’individuo.
L’esito del film e’ ovviamente contraddittorio, perche’ utilizza gli stessi elementi (sesso e violenza) che critica, ma suggerisce alcune considerazioni. Intanto fa piacere che per una volta il cinema non nasconda la vita, ma mostri corpi e secrezioni senza occultare con una dissolvenza quello che i personaggi vivono in prima persona. Certo, sarebbe molto piu’ rivoluzionario abbinare il sesso esplicito ad una bella storia d’amore, senza per forza connotarlo in modo negativo e, perdipiu’, a braccetto con la violenza. Inoltre e’ interessante che non siano tanto i ragazzini, quanto i genitori, il bersaglio del film. I giovani protagonisti, infatti, sono rappresentati come vittime di un’educazione fatta di regole, impartite da genitori che attraverso un ritornello privo di sostanza pensano di avere assolto il loro ruolo. In questo senso non stonano affatto le esagerazioni al limite del grottesco, esibite per quasi tutto il film, che diventano lo specchio di un occhio deformato, incapace di dare alle cose il giusto peso. Nonostante tutti i tentativi razionali per interpretare il lungometraggio, resta pero’ un atroce dubbio: “Come mai dalla visione di “Happiness” di Todd Solondz, che affrontava tematiche non troppo dissimili, si usciva distrutti, mentre “Ken Park” non lascia alcuno strascico e, anzi, viene ricordato solo per le scene forti?”
Luca Baroncini
Recensione n.2
Pellicola dalla tecnica pulita e ben raffinata, essenziale nello stile quanto turgida nella forma mentis, Ken Park sembra destinato ad essere brevemente ricordato solo grazie alle scene di sesso esplicito. Fioccano come neve, in un mondo di adolescenti che si affaccia davanti a quello adulto, scoprendone il peso e la convenzionalità dei crismi. In realtà, ad una successiva e più approfondita analisi, sorge come un inaspettato retrogusto la sensazione che il film tocchi nel profondo una corda sottile e fastidiosa.
Clark e Lachman, che prima di tutto sono direttori della fotografia (e si vede: il film, dal ritmo monocorde, cambia di umore con il solo uso della luce), affrontano il tema, non certo inconsueto, dell’età adolescenziale: il sesso, la distanza dai genitori, il peso delle responsabilità, le devianze e i tabù.
Le critiche sulla gratuità della provocazione, se proprio devono esserci, dovrebbero essere indirizzate, invece che alle scene di sesso, alla scelta delle storie raccontate. Si tratta infatti di casi limite della società, con l’inevitabile pericolo di cadere nel banale: il padre severo tutto muscoli che poi “tocca” il figlio è ormai un cliché, come lo è quello della donna il cui amante è il fidanzato della figlia.
Tant’è, ma al di la’ delle forse inevitabili banalità di una rappresentazione che mostra la realtà procedendo per modelli estremi, il film mira a rappresentare i nervi e gli spasimi di una società plastificata in sorrisi e ipocrisie, dove il sole splende sull’erba tagliata a fino, sotto la quale giacciono scheletri repressi e dimenticati.
E’ così che Ken Park sembra racchiudere un’intensa claustrofobia di fondo, ricordando da vicino quella di 1984 di Orwell. L’inquietudine adolescenziale scorre a fior di nervi lungo la piattezza quotidiana, trovando una scappatoia nella più libera aperta espressione del sesso, libero e sfrenato, e di gruppo.
Nelle scene di sesso finale, si assapora una sorta di riscossa, di ribellione: si denuda e si sfida il nostro senso del pudore. Le critiche di buon gusto e di gratuita provocazione, toccano a chi da queste immagini si sente insidiato, ricordandoci che il cinema, come la società additata da Ken Park, è e sempre sarà un ricettacolo di tabù.
Il tutto è sfiorato con uno sguardo freddo e apatico, lo stesso dei ragazzi di oggi, cucinati a fuoco lento in una pentola ovattata, senza guardare in faccia i come e i perché, ma semplicemente guardando la realtà nuda. Sesso compreso. Affiora così, nel forte pessimismo dell’opera, un tocco leggero e distaccato che rimanda alla ineluttabilità delle cose.
A mente fredda, però, il film fa male e l’indifferenza brucia quanto una verità sbraitata al vento.
Francesco Rivelli