Sceneggiatura: David Benioff
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musiche: Terence Blanchard
Scenografia: James Chinlund
Costumi: Sandra Hernandez
Montaggio: Barry Alexander Brown
Interpreti: Edward Norton, Philip Seymour Hoffman, Barry Pepper,
Rosario Dawson, Anna Paquin, Brian Cox
La storia di Monty Brogan, spacciatore di droga che ha a disposizione le sue ultime 24 ore di libertà, prima di entrare in carcere per i prossimi sette anni.
Mentre le ore scorrono inesorabilmente, lo accompagniamo in una New York ancora sanguinante nel buco di Ground Zero.
Atterrito dalla paura di non uscire vivo dalla violenza del carcere, passa così la giornata ad organizzare la propria festa di addio, incontrando le persone che più gli sono care: la fidanzata, i due amici del cuore, il padre.
La rabbia, il rancore, i rimpianti di un’America che non è più la stessa dopo l’11 settembre.
Recensione n.1
In una New York dopo l’11 settembre, che ha sostituito le Twin Towers con due fasci di luci azzurrognole, Monty Brogan (uno straordinario Edward Norton) trascorre l’ultima giornata prima di entrare in carcere, dove dovrà rimanere ben sette anni. È infatti un pusher bianco, di quelli insospettabili, quelli che spacciano negli ambienti bene, guidano automobili costose, hanno accanto donne mozzafiato ma amici con uno strano accento… forse russo. Monty è un bel ragazzo, simpatico, educato, un po’ scanzonato ma molto “umano”. Solo per fare un esempio, salva dall’agonia un cane, che diventerà il suo più fedele amico in un mondo (il nostro) in cui è sempre meglio guardarsi le spalle.
Mancano ventiquattrore all’alba e Monty ha molte cose da fare: salutare gli amici, prendere congedo dalla sua donna, avere un chiarimento con il padre, regolare i conti con la mafia russa, trovare un nuovo padrone al cane, dire addio alla sua casa e alla sua città, New York, con cui intrattiene un rapporto di odio-amore ma a cui difficilmente sarebbe in grado di rinunciare. Di contorno le storie degli altri, altrettanto “amorali” o comunque “inerti”: un broker che specula sull’aumento della disoccupazione, un professore che sogna di abusare dell’allieva minorenne, Naturelle (da togliere il fiato), la sua donna, che accetta regali costosi facendo finta di ignorare da dove provengano i soldi.
Spike Lee, regista “nero” per eccellenza, ci offre un’interpretazione della società “bianca” contemporanea eticamente desolante. Non c’è pentimento, non c’è redenzione, non c’è via d’uscita: l’unico valore è la sopravvivenza. E il business. Monty è un uomo “normale” che fa un lavoro “normale” ma che, sfortunatamente, incappa nelle maglie della giustizia quasi fosse un evasore fiscale, beccato in flagrante. La sua percezione della Grande Mela, ma dell’Occidente tutto, rimanda alla visuale dall’alto di Ground Zero: macerie, macerie, macerie e ancora non si è finito di scavare.
Ma il film di Spike Lee, nonostante la gravità dei temi affrontati, scorre leggero, lasciando il rammarico nello spettatore che sia già finito. L’ottimo montaggio, la recitazione esemplare degli attori, la capacità di gestire le storie parallele, l’approfondimento dei caratteri, il commento musicale, la fotografia… tutto, insomma, concorre alla piacevolezza della visione. Un bel film che, volutamente, smorza i toni drammatici perché non raffigura un eroe che affronta un destino avverso, bensì un antieroe che è costretto solo in ultimo a guardarsi allo specchio.
Mariella Minna
Recensione n.2
Non è l’inatteso abbandono della tematica razziale in favore di una storia di “bianchi” a sconvolgere in questo nuovo film di Spike Lee, “La 25° ora”, cronaca delle ultime 24 ore a disposizione di uno spacciatore prima di consegnarsi, per sette anni, in carcere a causa di una soffiata. Certo, il regista cambia le lenti degli occhiali e si cimenta nel raccontare l’aria malsana del post-11 settembre, i venti d’intolleranza e di ottusità che soffiano su una New York impaurita e quindi più aggressiva, ma a sorprendere è più che altro la sensibilità e la perfezione con le quali poco o niente di tutto ciò ci viene mostrato, se non attraverso la catartica ed esemplare storia di questo spacciatore. Edward Norton, che ormai recita sfiorando la perfezione, veste i panni di un uomo braccato dalla vita, la quale dopo averlo coperto di ricchezze, lo catapulta di colpo all’inferno. Rimangono 24 ore per rimettere insieme i pezzi in frantumi, prima di entrare in un tunnel, quello del carcere, dal quale egli non sa nemmeno se uscirà vivo. Vive, in questa vicenda, la riflessione su ciò che è accaduto all’America, la metafora di un dolore, e le conseguenze che questo si porta dietro. Vive, ed è questo che più ci piace, la sensazione che a tratti non sia la storia a parlarci dell’11 settembre, ma sia piuttosto quest’ultimo a far parlare i personaggi. In alcuni momenti, infatti, sono gli ambienti e le scenografie a salire in cattedra e ad appropriarsi del primato sulla scena, apparendo come supremi burattinai dei pensieri dei protagonisti. In questo modo, utilizzando anche un appropriato montaggio “spezzato”, il regista eleva la sua opera non solo a metafora, ma anche a documento, a fotografia di una città, che da un anno e mezzo è diventata più cinica, più schietta, più rabbiosa. Parla per tutto la scena iniziale: quel cane lacerato a terra, sanguinante e aggressivo con chiunque si avvicini. E dopo due ore di magistrale direzione, traghettati da Edward Norton verso l’ultima ora della sua libertà, sorge il dubbio che forse le cose possano andare in modo diverso, non debbano per forza risolversi in un inferno di sette anni. Spike Lee ci lascia sognare cosa potrebbe (o poteva? Forse siamo fuori tempo massimo) accadere se imboccassimo un’altra strada: questi ultimi minuti si fanno leggeri, evaporano al di sopra della soffocante sofferenza del film e quasi arriviamo a credere sia l’unica strada possibile… Il film non va oltre e non si sbilancia in ottimismi eccessivi, lasciando aperta ogni strada: resta, all’uscita, la sensazione di aver guardato finalmente in faccia l’America, la paura che le appiattisce lo sguardo, la stessa che le fa gonfiare i muscoli.
Francesco Rivelli
Recensione n.3
La 25a ora uscito un po’ in sordina nelle sale italiane è uno dei migliori film di questa stagione cinematografica. Il regista Spike Lee ha omaggiato sentitamente la New York del dopo 11 Settembre, elaborando il lutto e rimescolando tutte le contraddizioni implose nel cuore della grande mela. Lee racconta la storia della caduta negli inferi di Monty, spacciatore tradito. Viviamo accanto a lui l’ultimo giorno e l’ultima notte di libertà prima dell’ingresso in carcere. Prima di varcare la soglia del carcere deve sistemare quattro cose: trovare una casa per Doyle, il cane da lui salvato, pranzare con il padre e pompiere, che gestisce ora un bar (un vero mausoleo dei caduti dell’11 settembre), salutare i suoi due amici d’infanzia e scoprire se a tradirlo è stata la sua ragazza Naturelle. Con una narrazione tragica, shakespeariana, il regista afroamericano esplora l’anima dilaniata di Monty. Il film è ipnotico e impietoso. Accompagna lo spettatore nella discesa di Monty verso l’inferno. Il protagonista è un eroe tragico, colpevole ma non per questo meno degno di compassione. Le leggi severe odierne degli USA non ammettono sbagli e pentimenti, probabilmente quello che vediamo sarà l’ultimo giorno da essere umano del protagonista. Lee con grande abilità affianca a questo plot tradizionale, figlio di un primo Scorsese, un saluto e un omaggio alla sua città. Si riaggancia proprio allo Scorsese di Gangs of New York. Lì la pellicola terminava con l’inquadratura delle torri gemelle, qui inizia con i fasci di luce che le hanno sostituite. L’amore per la città è espresso con rabbia e violenza. Sono mostrate tutte le contraddizioni e le ambivalenze. L’odio marcia di pari passo con l’amore. Anzi, proprio la rabbia, la violenza sembra al meglio omaggiare la città, affascinante, per le sue infinite contraddizioni. Il lungometraggio, è un omaggio dolente e luttuoso alle vittime della tragedia collettiva e nello stesso tempo un racconto dell’ennesimo sogno americano infranto. Non ci sono eroi a New York, ma uomini caduti, persi, che non avranno una seconda possibilità. Con tutte le pecche e tutti i pregi del suo fare cinema, Spike Lee confeziona la sua opera migliore, la più scarna e tragica. Nella pellicola, la desolazione è palpabile, così come la necessità della pietà. A volte Lee risulta ridondante e magniloquente, ma è capace di offrirci anche scene sublimi. Come quella del pestaggio che sfigura il volto di Monty. Pestaggio richiesto con veemenza al suo migliore amico, per apparire meno attraente agli altri reclusi. In un’alba livida, tragica, assistiamo ad una violenza che racchiude in sé l’amore e la paura, l’affetto e il tormento, il rimpianto e il saluto fra due amici. Lee abilmente, unisce all’elogio della libertà e delle infinite scelte di vita che offre l’America, la denuncia delle differenti possibilità e disparità nutrite da quella stessa libertà. Il protagonista d’origine irlandese, che proviene da una classe disagiata, non ha scelta. Ha sbagliato ed è colpevole ma non ha la possibilità di pentirsi. Quello di cui ha bisogno Monty è una venticinquesima ora Un’ora che non esiste nel giorno. L’ora dei rimpianti e delle emozioni vere. L’ora in cui possa sognare una vita normale accanto alla compagna Naturelle. Contornato da figli in un paese della frontiera ovest americana, lontano da New York. Per avere una seconda possibilità, non resta che il sogno (o il cinema). Il giorno è composto da 24 ore e l’happy end finale, così caro alla cinematografia a stelle e strisce, non è che un Flash Forward su un sogno di un futuro possibile ma irreale. A Monty resta solo l’incubo del presente e la porta del carcere.
Paolo Bronzetti