IT 2003 di Marco Bellocchio con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Piergiorgio Bellocchio, Roberto Herlitzka, Paolo Briguglia
Recensione n.1
Sembra impossibile poter aggiungere ancora qualche cosa sugli “Anni di Piombo” senza cadere nel gia’ visto, detto o sentito e, soprattutto, non dimenticando il cinema. Eppure Marco Bellocchio riesce nel miracolo e costruisce un racconto cinematografico intriso di bellezza e novita’. Non sceglie la strada del film inchiesta, ma mette in scena la banalita’ del crimine attraverso il rapporto tra Aldo Moro e i suoi rapitori. Un confronto di cui viene evidenziata principalmente la quotidianita’, il succedersi di giorni in apparenza uguali ad altri e invece determinanti per la futura storia d’Italia. Il punto di vista adottato e’ quello della giovane brigatista Chiara, combattente rivoluzionaria in nome di un’utopia che viene gradualmente smascherata fino a perdere spessore e credibilita’. Nei suoi occhi troviamo smarrimento, paura, determinazione ed e’ in quelli che ci specchiamo per cercare di capire. A Bellocchio non interessa la verita’ degli accadimenti, la precisa ricostruzione dei fatti, ma un’interpretazione personale senza tesi ideologiche da esporre, con bastonate sia per chi il potere ce l’ha, sia per chi quel potere cerca di distruggerlo.
Un approccio piu’ vicino alla psicanalasi (sempre cara al regista) che al documento storico, piu’ vicino al sogno che alla realta’, piu’ vicino all’uomo che al politico e per questo anche piu’ diretto. In tutto cio’ il cinema viene utilizzato con competenza e sensibilita’, grazie a un montaggio fluido, a una sceneggiatura che rischia piu’ volte di impaludarsi nel didascalico ma che riesce sempre ad evitarlo, a una fotografia di grande intensita’ e a un commento sonoro perfetto per amplificare la resa emotiva delle immagini. Difficile non caracollare quando le lettere di Moro vengono affiancate a quelle dei condannati a morte della Resistenza, tra le note struggenti e potenti dei Pink Floyd con “The great gig in the sky”. Molto espressiva, nei suoi silenzi, la giovane protagonista Maya Sansa e davvero in parte Roberto Herlitzka, nel non facile ruolo di Moro.
E’ vero, il film aveva tutte le carte in regola per vincere il Leone d’Oro al Festival di Venezia, ma e’ comprensibile il distacco di una giuria internazionale nei confronti di una pagina cosi’ prettamente italiana, con nomi e luoghi difficilmente riconoscibili da chi quegli anni non li ha vissuti in prima persona, seppur da spettatore. In ogni caso, inutili le polemiche da Sagra del Cotechino di chi pretendeva ad ogni costo un riconoscimento. Grazie al cielo la giuria, presieduta da Mario Monicelli, ha deciso in autonomia, fuori dai condizionamenti di media, produttori e distributori, anche se probabilmente tante chiacchiere aiuteranno il successo commerciale del film. Ed e’ comunque un bene!
Luca Baroncini
Recensione n.2
Non è facile parlare di questo film, complesso e onirico, così diverso da “The dreamers” di Bertolucci, ad esempio. Eppure che bel film, un film tutto italiano, una storia vera, benché riletta sotto la lente del desiderio e del sogno. Magico Bellocchio che si inventa un’interpretazione nuova degli anni di piombo, che analizza solo l’umanità dei protagonisti, e in questa umanità riesce a dire tutto. E ci narra tutta la storia d’Italia, così con leggerezza, qualità che forse non gli avremmo mai riconosciuta.
Bravi gli attori che reggono una situazione claustrofobica, e come avrebbe potuto essere diversamente. Indovinata la fotografia che ci trasmette la solitudine, l’incapsulamento, la lontananza dal vero o meglio dalla realtà. Ottimo il montaggio con le scene “verità” e con i rimandi alla storia italiana ma anche mondiale. Che ci commuovono perché forse ha ragione Aldo Moro quando dice che la vita è un valore in sé, superiore a tutto e a tutti.
Umana la sua figura, sia pure controversa, e tenera nell’addio ai familiari. Un uomo, solo un uomo, di fronte alla follia dell’ortodossia. E altrettanto umani i terroristi, giovani e incolti, che affrontano un destino più grande di loro. Un film che rilegge la storia recente italiana, certamente cercando la riconciliazione, ma su una base autentica e non ideologica. E che commuove e intriga per la sua verità. Che ipotizza anche una via d’uscita dalla follia dell’ideologia, della razionalità, che coinvolse entrambe le parti in gioco. Una via di fuga che, certamente, è solo onirica ma che sarebbe stata l’unica soluzione umana a una tragedia personale e politica. Bellocchio ci ricorda che l’utopia è del sogno ed è a portata di mano. Basta solo un atto di umiltà per afferrare la felicità.
Mariella Minna
Recensione n.3
IL film di Bellocchio si apre in sordina,quasi “mettendo le mani avanti”.Stempera ogni accenno di pathos e tensione con un susseguirsi freddo e rapido di immagini e voci di repertorio,cornice grottesca della realtà irrappresentabile:i giovani protagonisti,reclusi e incorporati in un “sistema” germinale e minato,irrompono sulla scena come a voler spezzare il quadro narrativo che recita le loro vite.il 1978 è presente,lo è a dispetto degli abiti grigiastri che molti non riconoscono e degli esemplari effetti di straniamento adottati dal regista nel ricostruire una realtà-sogno nella casa rabbuiata e labirintica. i 4 protagonisti hanno un pizzico di ingenuità, di ignoranza e di risoluzione ciascuno. Su tutti, Una terrorizzata Maya Sansa si aggira nelle vie strette che la congiungono al covo, strette nonostante tutto, perchè dal momento in cui il frastuono nel cielo grigio(quasi sempre) e l’apparecchio televisivo,usuale dispensatore di immagini grottesche e distanti,le comunicano il compimento della sua prima “impresa” si lascia andare ad urla isteriche di una falsata e distorta gioia. Non è davvero felice, ma si convince di esserlo;l’orgoglio è quello di una giovanissima che devia paurosamente da una vita piatta, eppure l’eccitazione viene presto compressa nella scatola serrata della “storia” a cui partecipa,nella quale l’accerchiano gli eventi inesorabili, le crisi ,lo stato d’allerta e la sua gabbia psicologica costante, in cui cresce il conflitto tra sensazioni e “doveri”. La struttura a spirale del film,che così fedelmente riproduce quella di un”fatto” e di quel periodo in genere, è annunciata e orchestrata anche da “segni” , come quello della sceneggiatura che Lo Cascio-Moretti trova tra il materiale del presidente, dall’allusivo titolo “Buongiorno,notte”: è la stessa che un ragazzo, collega infatuato e curioso del personaggio di Chiara, le mostrerà svelandole la trama: la stessa del film. Oppure si nota la sottile evidenza di “inserti”, come quello in cui in un luogo sinistro abitato da eccentrici i personaggi di una seduta spiritica si interrogano sul luogo in cui Moro è tenuto prigioniero:la risposta è”la luna” (non si può fare a meno di pensare alla “piazza delle 5 lune” del titolo del film di Martinelli);il luogo inoltre richiama esplicitamente il salotto de “l’ora di religione” e la presenza stessa del regista quasi sembra ribadire la continuità ideologia e extra-narrativa dell’opera del regista. Ma l’esempio più importante di questo eterno ritorno si ravvisa nella ciclicità con cui la pellicola assume toni differenti dal nero-marrone dominante, e si spolvera quasi di un grigio-azzurro che cancella le pieghe di un reale innominaBILE e claustrofobico:sono i momenti d’apertura, dominati dalle frasi spesse e cangianti di Moro, disperato senza ribellarsi, dalle rughe di una figura con cui la protagonista intrattiene un rapporto immaginario,esclusivo, pur temendo lo sconvolgimento che una realtà diversa dalla sua potrà portarle. Chiara crede di vedere l’uomo uscire dal nascondiglio, rivolgersi a lei,crede che la forza interiore di cui avverte qualcosa spezzi le barriere di un corpo inerme e le catene di un perfetto nascondiglio; ed è per comprendere quest’oscura forza che scruta realmente l’inquietante sagoma, trasalendo non appena questa passa davanti allo spiraglio che cela il suo occhio.
Il pregio del film sta nei continui appelli all’intelligenza, incarnata dai personaggi di Moro e del giovane collega, e, in parte, da brandelli della coscienza della brigatista. La necessità di un incontro,di un’esplorazione della complessità delle cose riecheggia attraverso le frasi che la vittima rivolge ai compagni e alla propria moglie, nella “scenetta” e nei discorsi dal contenuto apparentemente banale offerti dalla famiglia di Chiara, nella disperata e contagiosa vitalità di un personaggio che “non sa” eppure “conosce” e si situa al di sopra delle parti. E’ la comprensione di questa complessità, invisa al terrore perentorio del “capo” dei brigatisti, che provoca lo spettatore e percuote i personaggi, caricandoli di emozioni e commozioni autentiche, e non,come hanno scritto alcuni, una generica morale.
Chiara F
(Dis)alma mater: una riflessione sul cinema di Bellocchio
Dopo le inutili e pretestuose polemiche nate dall’ultimo film del regista piacentino, mi sembra utile riconsiderare L’ora di religione in rapporto agli altri due film che personalmente considero parte di un trittico che ha come tema fondante la famiglia; Il principe di Homburg e La balia. Con gli ultimi tre film Bellocchio torna ad occuparsi in modo cristallino e limpido, dopo i chiaro scuri dei film della collaborazione con Fagioli, del rapporto padri-figli e soprattutto madri-figli.
Difatti vedremo come la figura della donna, l’elemento femminile, tende ad assumere un’importanza fondamentale. Il film da cui mi sembra utile partire per le considerazioni sulla figura femminile nelle ultime opere del regista in quanto momento di snodo è appunto Il principe di Homburg. Il film del 1997 è tratto da un dramma di Von Kleist. Il principe, contravvenendo agli ordini dello zio, il grande Elettore, decide di sferrare un attacco al nemico che si rivela decisivo per la vittoria. Nonostante il buon esito della battaglia, avendo infranto un ordine viene condannato a morte. Il principe si trova davanti ad un bivio; chiedere il perdono e salvarsi o conservare la propria integrità morale pagandola con la morte? Siamo davanti chiaramente ad un rapporto di potere che ricorda quello tra padre e figlio, che passa attraverso le categorie dell’obbedienza. Il ricordo va immediatamente ad altri film del regista piacentino quali Nel nome del padre. Abbiamo inoltre come terzo polo del conflitto la figura della principessa Natalia. Essa ama il principe e vuole fare in modo di salvarlo convincendolo a chiedere la grazia. La femminilità rappresenta quindi il principio di piacere che si oppone al principio di realtà rappresentato dal Grande Elettore, ma anche l’elemento mediatore. In termini freudiani potremmo ritrovare gli elementi del conflitto L’es, l’io, il Super io. La donna come nei film precedenti del regista rappresenta dunque l’ elemento salvifico, la via di fuga dall’autorità paterna. Seppur defilata dal conflitto in linea retta padre-figlio, la sua importanza è fondamentale in quanto mediatrice di un conflitto altrimenti insanabile. Tocca a lei, in una scena che non è possibile dire se realistica od onirica, portare la notizia della salvezza al principe. Da queste brevissime considerazioni emerge come la donna abbia ancora un ruolo positivo nel gioco dei personaggi, riuscendo a rappacificare in qualche modo il principe e il Grande Elettore.
Nel film successivo, La Balia, la figura femminile assume un’importanza fondamentale tanto da diventare la vera protagonista della vicenda.
Il film, tratto dalla novella omonima di Pirandello, narra del conflitto che nasce, in casa del professor Mori, tra la moglie di quest’ultimo e la ragazza venuta ad allattare il figlio. La vitalità e la disponibilità materna della balia si oppongono alla figura profondamente nevrotica della moglie, che arriva alle soglie della follia. Lo stesso professore, uno psichiatra, è combattuto tra l’amore per la moglie e l’attrazione per la figura così vitale della ragazza.. In un certo senso assistiamo ad uno sdoppiamento della figura femminile; abbiamo un volto positivo e un altro in qualche modo negativo della figura della donna. L’uomo in questo caso vive indeciso tra i due poli, incapace di scegliere. I due aspetti ritornano anche specularmene in altri personaggi femminili della vicenda. Per esempio potremmo ritrovare una figura speculare della balia nella ragazza che fugge con il giovane collega di Mori. O nel caso della moglie, mi sembra interessante collegarla con la madre del paziente che Mori va a visitare in casa, personaggio con molta probabilità vittima di un’educazione repressiva. La prima sequenza a questo proposito è emblematica. Conviene soffermarsi brevemente. La prima inquadratura ci mostra un paesaggio montano dove stanno passeggiando alcune donne tra cui la balia stessa, ancora con il bambino nel grembo. Abbiamo una dissolvenza in nero e udiamo la voce del dottore che parla con il suo paziente. In seguito vediamo Mori e il paziente che stanno colloquiando. Il medico spinge il paziente ad uscire di casa.Troviamo contrapposti dunque fin da subito la speranza rappresentata dalla maternità e la malattia psichica, dunque l’elemento negativo.
Gli uomini in questo film non possono vivere se non nell’indecisione, nel cupo pessimismo. Assistiamo dunque ad una diversa collocazione delle forze in campo rispetto al film precedente. La donna rappresenta anche in questo caso l’elemento vitale, ma sono presenti anche figure femminili castranti come nel caso della madre del paziente, o sprofondanti nella follia. Dunque la figura della donna non riveste più come nel caso dei film precedente un ruolo solo positivo, ma incomincia anche a sostituirsi alla figura maschile come elemento antagonista.
Nel caso de L’ora di religione assistiamo ad un vero e proprio ribaltamento delle forze in campo. Tralascio in questa sede di occuparmi del significato religioso del film, anche perché lo ritengo in un certo senso secondario rispetto alla vera problematica che ne sta alla base. Un indizio che secondo me può portare al reale discorso del film sta nel sottotitolo, Il sorriso di mia madre. Difatti Picciafuoco, il protagonista non si rende conto che nonostante pensi dei essersi liberato del legame con la figura materna, in realtà ne è ancora profondamente succube. Il sorriso di sua madre è ancora stampato in volto e ben tre personaggi gli fanno osservare come sia un sorriso beffardo, offensivo. La madre seppur morta domina i destini dei personaggi, è ancora presente nei quattro figli. È una figura profondamente negativa, il cui ricordo genera sempre spavento e smarrimento. Non a caso all’annuncio dell’avvio del processo di beatificazione, il figlio vaga smarrito nel corridoio di casa ricordando al voce della madre che rimprovera l’altro fratello che sta per bestemmiare. La sua immagine campeggia anche in una gigantografia presente nel quartier generale della causa di canonizzazione, la casa della zia. Siamo davanti ad un inquietante idolo che sorride beffardo. Ma la madre non è la sola figura femminile negativa, abbiamo le zie del protagonista, vecchie zitelle che si sono precipitate a Roma pregustando la fama che porterà la beatificazione della sorella. E soprattutto zia Maria, la figura più repellente, interpretata da Piera Degli Espoiti. La sua figura rappresenta la perfetta antitesi del protagonista. Essa cerca di convincerlo a convertirsi per mero interesse. Sulla sua bocca campeggia un sorriso beffardo, pari a quello della sorella morta. In un certo senso ha preso il posto della figura del padre, che non caso non viene mai nominato, nella difesa dei sacri valori della famiglia. “Ancora con questi discorsi” risponde arrabbiata allo sfogo di Ernesto contro la propria e tutte le famiglie . A questo punto la maschera è ormai gettata; la figura della donna ha rivelato la sua negatività completa, mostrando la sua intrinseca reazionarietà. A completare l’elenco dell’ormai avvenuto ribaltamento figura maschile-femminile troviamo la moglie di Ernesto, che ha nascosto al marito il processo di beatificazione della madre. L’unico accenno ad una figura femminile positiva è Diana, la misteriosa insegnante di religione del figlio, che potrebbe anche solo essere un desiderio sognato del protagonista. Assistiamo dunque concludendo negli ultimi film del regista piacentino ad una progressivo ribaltamento dei rapporti tra femminile e maschile. Mentre precedentemente la figura della donna possedeva in se una forte carica eversiva, nell’ultimo film riveste un ruolo di difesa ad oltranza dei “sacri” valori della famiglia.
Ora il rapporto padre-figlio non è più conflittuale, perché forse solo in esso è possibile trovare un’ancora di salvezza al dilagante conformismo. Ernesto vive solo per il figlio e compie proprio il gesto più rivoluzionario sottraendolo ad un altra istituzione che non a caso è femminile; la chiesa, sempiterna “madre” dei deboli e dei santi. Bellocchio dimostra quindi di aver compreso come le forze in campo si siano ribaltate. Ora è la figura femminile a rappresentare il Super io, mentre la figura maschile convoglia in se l’Es e l’Io freudiani. Quindi la donna nel cinema di Bellocchio non è più alma ma dis-alma mater.