Regia di Eli Roth, con Rider Strong, James DeBello, Cerina Vincent, Joey Kern, Arie Verveen
Trama: Un gruppo di amici decide di affittare uno chalet nel bosco di una contea per festeggiare il raggiungimento della laurea. Ma quando uno sconosciuto busserà alla porta, uno strano virus che distrugge i tessuti della pelle si presenterà ai loro occhi, rovinando per sempre le loro vite.
Recensione n.1
Se posso darvi un consiglio, non perdetevi questo “Cabin Fever”. Nel desolante scenario delle uscite horror di fine estate (“They”, “Final Destination 2”, tanto per citarne qualcuno) si staglia come un piccolo gioiellino, anche se non si tratta decisamente di una pellicola per tutti i gusti.
L’idea di partenza ha molti punti in comune con quella del celebre “La Casa” (opera prima di Sam Raimi), tant’è che qualcuno ha pensato si trattasse di una specie di remake: un gruppo di ragazzi decide di passare un paio di settimane in una baita nei boschi, per festeggiare la fine del college. Purtroppo per loro un virus letale ha infestato tutta la zona circostante, uccidendo animali e persone secondo modalità tutt’altro che tranquillizzanti.
Il confronto con “La Casa” è sicuramente immediato, ma bisogna dire che i riferimenti del giovane regista non si fermano qui, passando per le atmosfere inquietanti di “Un tranquillo weekend di paura” e i toni malati di “Non aprite quella porta”. E senza dimenticare i luoghi comuni e le convenzioni del cinema dell’orrore, spesso sfruttati con intelligenza e originalità.
Gli elementi della trama comunque sono molto semplici: niente complotto fantascientifico, niente setta satanica dedita ai sacrifici umani o a forme più abiette di celebrazioni liturgiche, nessuna creatura sovrannaturale o demoniaca, da eliminare attraverso poco credibili rituali esorcizzanti o quant’altro…
Così, proprio grazie a questa semplicità e linearità del presupposto, il regista (anche co-sceneggiatore) può concentrarsi nel mostrare le conseguenze fisiche e psicologiche del virus sul gruppo, senza tergiversare troppo, a tutto vantaggio dello spettatore. E con una notevole attenzione alla verosimiglianza, spesso messa malamente in crisi negli horror più dozzinali, oltre a una certa cura nella direzione degli attori. I quali mostrano capacità certamente sopra la media, considerando il genere di film.
Ovviamente, trattandosi di un vero horror, non mancano il sangue, le morti brutali, la tensione e le immagini raccapriccianti. Ma c’è da dire, e questo è sicuramente uno dei lati più interessanti del film, che tutta la prima parte è assolutamente divertente, con sequenze e battute degne di una buona commedia. Senza cadere quasi mai nel grottesco più trito o nell’umorismo più becero, il film riesce dunque a strappare più di una risata (vera), creando il giusto clima prima di precipitare nell’orrore puro e nel pessimismo nero (condito da una bella dose di ironia) della seconda parte e del finale.
Insomma “Cabin Fever” non delude, o almeno non deluderà gli stomaci forti che avranno l’ardire di andarsleo a vedere al cinema.
Sasha di Donato
Recensione n.2
“Horror a piu’ non posso” sembra essere il motto dell’estate 2003. Tra i tanti brividi a buon mercato che hanno invaso gli schermi nelle canicolari giornate agostane, questo film indipendente americano sembrava avere le carte in regola per aggiungere succulente pietanze alla fame di inquietudine dello spettatore: scritto, diretto e prodotto da Eli Roth, gia’ collaboratore di David Lynch, e musicato da Angelo Badalamenti, confezionatore di atmosfere di impalpabile malessere. Invece anche “Cabin Fever” delude. Gioca con gli stereotipi del genere ammiccando al sorrisino del cinefilo, ma il divertimento arriva troppo tardi per poter davvero coinvolgere. La partenza del racconto e’ di sconcertante banalita’ (cinque giovani antipatici in vacanza in un cottage isolato di montagna) e l’estremizzazione dei caratteri appare troppo convenzionale per lasciare intendere che dietro alla superficialita’ di facciata ci sia un tentativo di farsa. In fondo la maggior parte degli horror comincia descrivendo la futura carne da macello dell’immancabile pazzo, serial killer, mostro o virus. E il piu’ delle volte i giovincelli non brillano certo per simpatia, anzi, sembra che ci sia un rapporto di diretta proporzionalita’ tra il tasso di vacuita’ delle predestinate vittime e la ferocia dei delitti di cui sono applauditi protagonisti. Difficile quindi non confondere l’assenza di originalita’ con un intenzionale “sopra le righe”. Negli sviluppi a seguire, poi, la regia si mantiene in un incerto limbo, dove il genere si frammenta senza pero’ che i singoli tasselli si ricompongano in uno stile personale e compatto. Fa capolino lo splatter (non mancano i brandelli di carne e le schifezze), si ride di gusto ad alcune virate nonsense (le piroette del bambino carnivoro e il “kit” dei tre nerboruti energumeni) e una spruzzata di trash ravviva la narrazione. Ma oltre a un moderato divertimento il film di Eli Roth non va. In fondo giocare con il genere cinematografico e le citazioni e’ diventato uno dei modi piu’ gettonati per ravvivare il “genere” stesso e permettere a storie sempre piu’ trite di reitarsi con brio (per restare all'”horror”, dagli smaccatamente testicolari “Scary movie” ai piu’ sottili “Scream”). “Cabin Fever” si colloca in una discutibile via di mezzo, senza riuscire ad essere sufficientemente liberatorio e senza mai davvero spaventare. Anche la critica sociale che lo percorre trasversalmente appare datata e ormai scontata: c’e’ ancora qualcuno che pensa che un poliziotto possa non essere corrotto, che la natura sia un rifugio o che l’uomo non sia prigioniero del suo millenario egoismo?
Luca Baroncini
Recensione n.3
Uscendo dalla sala, ripensando alla promettente cromatica dei titoli d’inizio, scappa da ridere per la demenza della sceneggiatura, il ridicolo groviglio di detti tipicamente americani, senza parlare delle scene che faticano a trovare un senso e dello scellerato utilizzo dei dialoghi. Se non fosse (dicono che lo sia) un film horror e non avesse altro fine se non quello di terrorizzare il pubblico, ci sarebbe da passare alla cassa e chiedere il rimborso del biglietto.
E invece la locandina recita così: “Cabin Fever – Genere: Thriller/Horror”.
Peccato che in comune con il genere horror Cabin Fever abbia solo la salsa di pomodoro che sgorga da metà film in avanti.
Ma procediamo con ordine.
I topòs sono quelli tradizionali: una contea sperduta e provincialotta, uno chalet isolato, il tetro bosco e belle ragazze. Ciò che però fin dall’inizio strabilia è l’ingenuità nel calcolo dei tempi. Se la prima parte è sospesa in un limbo di attesa, infarcita con discorsi pressoché inutili, la parte dell’azione tarda invece ad arrivare, il ritmo si assopisce e da attesa di suspence si passa a noia mortale.
Sembra, più che altro, che il film sia stato concepito in fieri: ogni scena è infatti la giustificazione di quella precedente. La fabula coincide con la trama, sicché non appena sembra si faccia sotto un po’ di tensione con la morte del contagiato dal bosco, si è successivamente costretti ad assistere alla scoperta della sua identità, facendo anche le conoscenze della cugina.
I discorsi non-sense del poliziotto, si scoprirà poi, rimangono fini a se stessi contribuendo solo a riaddormentare il film e lasciando al virus un tempo d’incubazione decisamente troppo lungo.
Ogni velleità ansiogena viene così disintegrata, mentre cresce il moralismo, celato dietro l’egoismo dei personaggi, riassumibile nello slogan: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”.
Ma è solo l’ennesimo espediente per dilatare un’attenzione che tende a precipitare, che prosegue con l’entrata in gioco dei buffissimi cacciatori, una breve parentesi ironica (così speriamo) che non ha alcun significato se non quella di gettare altra carne su di fuoco ormai spento.
Da qui in poi il gioco è facile: pomodoro, pomodoro e ancora pomodoro. Si tratta di meno di mezz’ora, dove il magro splatter finisce per rovinare addirittura in un nostalgico videoclip dalla patina romantica.
E’ la summa di una confusione di idee che non giustifica la lucida quanto illusoria pretesa di girare un horror fondandolo sul solo utilizzo delle citazioni.
Francesco Rivelli