Regia: Gus Von Sant
Interpreti: Timothy Bottoms, Matt Malloy, Eric Deulen, Alex Frost, Elias McConnell
Recensione n.1
In concorso alla 56^ edizione del festival di Cannes, “Elphant” di Gus Van Sant, in deroga a tutte le regole del festival, si è aggiudicato la Palma d’Oro ed il Premio per la Miglior Regia. La giuria di Cannes, presieduta dal regista francese Patrice Chéreau, ha voluto premiare l’impegno e la sensibilità di Van Sant che, con questa pellicola, ha commosso tutti, americani e non. Infatti, “Elephant” parla dell’America, o meglio di uno dei tanti problemi che da qualche anno affliggono questa controversa nazione e cioè la violenza nelle scuole. Ma la pellicola di Van Sant tratta questo tema in modo nuovo e per nulla retorico. Attraverso il racconto di una giornata tipo all’interno di un liceo americano, Van Sant entra nelle vite dei ragazzi, nella loro quotidianità fatta di lezioni, partite di football, primi amori e problemi esistenziali per descrivere l’assurdo dramma della violenza. Elias, John, Jordan, Carrie, Nicole, Alex ed Eric sono ragazzi come tanti altri, ma qualcosa di totalmente devastante rende le vite di alcuni di loro tanto insostenibili da indurli a commettere il più terribile dei crimini. Van Sant prende spunto dai molti episodi di stragi nelle scuole che si sono verificati in America negli ultimi anni, tra cui quello del ’99 di Columbine, magistralmente documentato nel lavoro di Michael Moore “Bowling for Columbine”, per denunciare il pericolo al pubblico, non con grida o posizioni moraliste, ma solo osservando la cruda realtà. Che da sola basta a raccontare l’orrore e l’urgenza di fare qualcosa. Per questo il regista segue letteralmente i suoi personaggi, spesso inquadrandoli da dietro, come un detective invisibile che cerca di indagare sulle ragioni inspiegabili di tanta violenza, ma facendo entrare lo spettatore nella realtà di quelle vite semplici, eppure tanto ingarbugliate. La macchina da presa si concentra sui ragazzi, senza giudizi o colpi di scena, ma solo descrivendo crudemente ciò che capita. E non ci sono soluzioni, come non c’è finale perché quello di Van Sant è un discorso aperto che sta al popolo americano, o meglio a tutti noi, continuare. Noi siamo nel film. Grazie ai lunghi silenzi e ai piano-sequenza che caratterizzano la pellicola, camminiamo, giochiamo, studiamo e viviamo con i protagonisti. E questo è il messaggio più forte e più incisivo di “Elephant” perché, anche se non possiamo cambiare quella storia, di certo possiamo fare molto perché non ce ne siamo delle altre.
Francesca Manfroni
Recensione n.2
Gus Van Sant continua la sua strada di sperimentazione del mezzo cinematografico e affronta la tristemente nota strage alla Columbine School in Colorado del 1999 mostrando, con freddezza da chirurgo, i fatti nella loro essenzialita’: un giorno qualsiasi, una scuola brulicante di studenti (sempre in giro e mai in classe), chiacchiere di routine, tanti visi sovrapponibili, ognuno con una storia differente da raccontare o forse sempre la stessa storia in abiti diversi. La oliata quotidianita’ viene squarciata da due giovani che, dietro l’aria qualunque, serbano un rancore profondo verso i compagni di scuola dalla presa in giro facile e i professori che non sono stati capaci di ascoltarli. Il lungometraggio segue il destino beffardo di alcuni abitanti della cittadella scolastica (parlare di liceo sarebbe riduttivo) nell’arco della mattinata fatidica, si incolla alle loro schiene e li pedina con insistenza, sfocando i contorni di un “fuori” difficile da comprendere e motivare, fino al massacro finale. Il film e’ tutto qui, ma dietro la semplicita’ di copertina c’e’ un percorso registico molto sofisticato: un formato inconsueto (1:33 al posto del canonico 1:85), lunghi e complicati piani sequenza, molteplici punti di vista che ripropongono (senza aggiungere molto, peraltro) l’attimo che separa la quiete apparente dell’ordinario dall’orrore dello straordinario. L’idea di esplicitare i fatti partendo dall’interno dell’azione e’ forte ed efficace, ma non appena il film esce dalla cronaca per soffermarsi su quello che i giornali hanno potuto soltanto ipotizzare, la banalita’ del male inciampa nella banalita’ dello sguardo. Cio’ che viene mostrato dei futuri assassini pare infatti materia per un becero talk show da “prime time” televisivo: in una sola mattina i due restano affascinati da un documentario sul nazismo, si dedicano a violentissimi videogiochi, si lanciano in un approccio omosessuale, mentre la famiglia e’, ovviamente, uno sfondo indistinto, distratto o assente. Il tutto inframmezzato da dialoghi pronunciati con l’apatia di un “mi passi il the cara!”. E la forzatura continua nella messa in scena del massacro. La violenza resta quasi sempre fuori campo, ma il gelo e l’indifferenza degli assassini, come anche degli altri ragazzi (lenti, flemmatici e per nulla terrorizzati) suona semplicemente falso. L’agghiacciante vacuita’ di una generazione priva di punti di riferimento e àncore affettive, si traduce cosi’, attraverso un taglio asciutto e minimale, in un bell’esercizio di stile dal poco valore aggiunto. Il turbamento che ne deriva e’, anch’esso, solo di superficie e non scalfisce. Pronto, una volta fuori dalla sala cinematografica, ad essere spazzato via da un vento autunnale in grado di scompaginare immagini e pensieri. Il centrifugato di nitrato che ne rimane e’ solo un lieve piacere, tutto di testa.
Luca Baroncini
Recensione n.3
Un liceo americano come tanti. Studenti belli e fatui che cambiano aula nella noia generale. Qualcuno ha il padre alcolista, alcune ragazze un presente anoressico, tutti sono accomunati dall’ignoranza del passato. Interessati veramente a nulla, giocano ai videogiochi, suonano il pianoforte ma senza convinzione (Beethoven, un riferimento a Kubrik di “Arancia Meccanica”?), si trascinano stancamente. Fino a che la violenza esplode (ma esplode sul serio?). E due fratellastri si armano fino ai denti e indossano le tute mimetiche per fare piazza pulita, non perché ne abbiano alcun motivo o ragione, solo per avere “lot of fun”.
Quello che ci colpisce è l’inutilità di questo film, pluripremiato a Cannes, la sua inconsistenza etica ma anche registica. I dialoghi non esistono (i personaggi lobotomizzati articolano poco più che suoni indistinti), gli attori recitano se stessi, la regia ci “stupisce” con molti fuori fuoco, un abuso della steady cam, qualche visione “poetica” del cielo. Il montaggio è il pezzo forte, peccato che di esempi analoghi ne sia piena la storia del cinema.
Ma allora perché? Perché gli europei amano l’America, anche se non sempre ne sostengono i governi. Perché Chirac ha assunto una posizione di chiusura, ma nessuno nega che il cinema americano… Perché è più facile trovare significati laddove non ne esistono, costa meno fatica. Perché anche gli “ignoranti” si ritroveranno in questa pellicola che non richiede loro il benché minimo sforzo. Perché è più facile e comodo non avere ideali a cui dover dar conto, e tanto meno una coscienza. Perché è il mondo che va così…
Mariella Minna