Recensione n.1
Si puo’ parlare del disagio degli immigrati e del cupo sottobosco di una metropoli, non per forza torturando lo spettatore con gratuite grevita’ e insostenibili lentezze, ma semplicemente raccontando una bella storia. Ed e’ proprio quello che fa Stephen Frears, regista discontinuo (qui prodotto dalla potente Miramax), che adotta un bellissimo script di Steven Knight ammantandolo di cinema. Niente vezzi autoriali, di quelli che fanno impazzire la critica e sonnecchiare il pubblico, ma una regia funzionale al racconto, priva di virtuosismi ma perfetta nel trasportare lo spettatore dentro i personaggi, facendolo soffrire, indignare e palpitare, come se cio’ che avviene sullo schermo accadesse qui ed ora e necessitasse di risoluzione immediata. Il protagonista e’ un bravissimo Chjwetel Ejiofor (gia’ visto in GMT-Giovani Musicisti di Talento) che attraverso un lavoro di sottrazione comunica costantemente la sofferenza contratta del suo personaggio. Audrey Tautou evita di adagiarsi nella carineria di Amelie Poulan, che l’ha resa piu’ che popolare, e sceglie un personaggio dalla dolcezza violata, smarrito inun mondo piu’ grande di lei che della francesina spontaneista conserva solo gli occhioni neri. Sempre piu’ bravo anche Sergi Lopez, qui cattivissimo senza cadere nella trappola della caricatura. Ma e’ proprio il copione che dissemina i dettagli del racconto con grande equilibrio, consentendo una progressione drammatica sempre piu’ coinvolgente. E l’indignazione e la commozione che il film riescono a suscitare, sono molto piu’ efficaci di tanti pistolotti edificanti, raccontati con autorialita’ ma incapaci di accorciare la distanza tra schermo e spettatore.
Luca Baroncini
Recensione n.2
Dajkljl e kdlsa sono due onesti immigrati senza passaporto che sopravvivono nella faccia oscura e clandestina di Londra. Inseguendo ognuno il proprio sogno, i due si ritroveranno immischiati in misteriose e poco pulite vicende tra stanze d’hotel, organi umani abbandonati nel water e perversioni. Piccoli affari sporchi appartiene a quel genere di pellicole che intendono denunciare un quadro sociale ma non hanno ben chiaro come raccontarlo. Finisce allora che il regista si aggrappi a più idee narrative per reggere il peso del proprio punto di vista, con il rischio di perdere poi il contatto diretto con la vena declamatoria.
E’ così che un film sul mondo dei clandestini giunge ad assumere progressivamente connotazioni da genere thriller, sprofondando infine nel melò. Il risultato è un ibrido di generi, intenzioni, atmosfere, che fortunatamente viene soltanto scalfito dalle potenzialità distruttive di tale scelta.
Tre sono infatti i filoni lungo i quali Frears fa scivolare le immagini: la descrizione del mondo clandestino londinese, le vicende individuali dei protagonisti, immischiate loro malgrado in affari poco puliti, e il loro intreccio sentimentale.
Se le prime due istanze narrative, rafforzandosi reciprocamente e creando una visione delle condizioni clandestine di forte impatto, sono funzionali e complementari, la terza, cioè la storia d’amore, appare invece gratuita, fine a se stessa, studiata come cerniera di chiusura alla storia.
Per fortuna non si annega nel sentimentalismo più squallido, ma l’epilogo non ci va troppo lontano e rischia invece di rovinare in pochi secondi un’ora e mezza di ottimo cinema.
L’epidermide che scorre sopra questo scheletro è invece una vellutata e chiaroscurale superficie visiva, che soprattutto negli interni dai colori accesi ammalia ed intriga come in un film di David Lynch, mentre la trama non risparmia emozione e commozione.
Questo soprattutto grazie ai personaggi, caratterizzati in modo funzionale alle loro vicende, incarnazione di un mondo che vive nei sotterranei delle nostre metropoli, attigui ai nostri appartamenti, mimetizzati nel traffico. Il merito più alto del film, al di la’ delle forzature narrative citate, è infatti quello di far traspirare con incredibile efficacia la doppia faccia di cinismo e perversione che gravita intorno ai compromessi di questa realtà. La retorica è tenuta sempre al guinzaglio con severa disciplina, tanto che si resta increduli, nel finale, quando inaspettatamente tutto volge al mieloso. Ma all’epilogo si arriva con un tale rigore formale da far scomparire il languore dietro il retrogusto di una Londra impietosa.
Francesco Rivelli