Dopo aver scritto Quattro Matrimoni e un Funerale, Notting Hill ed il Diario di Bridget Jones, Curtis dirige (e scrive) il suo primo film, Love Actually.
Curtis è riuscito nell’impossibile, cioè di rendere Londra la città romantica per eccellenza: è riuscito, in un certo senso, a creare un nuovo genere (assieme ai film tratti dai romanzi di Hornby), cosa certo difficile.
La commedia britannica, dal passato glorioso, si era appannata negli ultimi decenni e Curtis, quasi da solo, è riuscito a rivitalizzarla e cambiarla.
Sottoprodotto più o meno gradito della cosa la creazione della star Hugh Grant. L’umorismo non è nero ne’ crudele; la satira è gentile, in un mondo in cui non ci sono, nel complesso, veri cattivi ma parecchi deboli; il tono è sentimentale, non senza momenti di pathos; l’ambiente è una Londra allo stesso tempo realistica e fantasy, la metropoli del romance, la Parigi del XXI secolo; le sceneggiature solidissime; la recitazione sempre del massimo livello, con attori importanti e caratteristi perfetti. Sì, ho un debole per questo genere di film. In Love Actually Curtis sceglie di spezzettare l’azione in parecchie storie diverse che si sfiorano senza connettersi, ambientate nelle settimane prima di Natale e tutte incentrate intorno all’amore. Se il messaggio è che l’amore è dappertutto, allora il tono leggero è la cosa giusta da fare.
Alcune storie sono più riuscite di altre: la migliore per me è quella di Colin Firth e la governante portoghese; notevole anche quella in cui Andrew Lincoln è innamorato della moglie del suo migliore amico; divertente quella delle due controfigure porno; facile quella di Hugh Grant primo ministro, che da lo spunto a qualche battuta antiamericana (ormai l’antiamericanismo è di moda grazie a GWB, molto meno affascinante di Billy Bob Thronton nella parte di un Presidente USA dalle mani lunghe); seriamente commovente la storia di Laura Linnley e della sua impossibilità di amare; simpaticamente demente l’avventura americana del prolet Colin etc. Ma non c’è un attore fuori parte e tutti hanno il loro momento.
Due menzioni speciali. In piccole parti ci sono Rodrigo Santoro e Keira Knightley. In un film in cui non ci sono persone veramente brutte, loro due sono fuori dalla norma e toccano i limiti della bellezza umana. Santoro, brasiliano, non ha molto da fare: si spoglia – in circostanze poco propizie – e diventa una star. In futuro mi sa che lo vedremo fino alla nausea.
Keira Knightley è un caso curioso, per me. Era la protagonista della Maledizione della Prima Luna: era ovviamente bella e vivace ma, tutto sommato, non mi aveva colpito più di tanto. Per quanto spazio avesse, si vedeva che non era davvero importante per il film o per il regista. Qui la si vede per pochi minuti ma è ripresa dal regista e guardata da chi la ama con tale intensità da sconvolgermi, faccio fatica a ricordare qualcuna più bella al cinema di recente. Davvero, dipende da come vengono ripresi e Curtis, che magari non sarà un grande regista, che magari non potrà girare i film di Ridley Scott o Ken Loach, ha una totale predisposizione per il suo materiale, tanto fragile quanto coinvolgente.
Un film piacione, mi dicono, come se questo fosse un vero difetto. Dogville e Kill Bill vanno bene per l’altro emisfero del mio cervello.
Stefano Trucco