USA 2003 di Clint Eastwood con Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laura Linney, Laurence Fishburne, Marcia Gay Harden, Adam Nelson, Eli Wallach.
Recensione n.1
°Boston: la tragica morte della figlia diciannovenne del ceffo da galera Jimmy Markum riporta in vita l’antico legame che legava lui a Sean Devine, il poliziotto che ora indaga sul caso, e Dave Boyle, che da piccolo fu sequestrato per pochi giorni. La sceneggiatura di Brian Helgeland, tratta dal romanzo La morte non dimentica di Dennis Lehane, puzza di Stephen King e non è tanto incentrata sui meccanismi polizieschi ma sulle dinamiche esistenziali e sui temi dell’amore e dell’odio, della memoria e del dolore, dell’amicizia perduta: ma la regia di Eastwood, strenuamente osannata da coloro che vedono in lui uno degli ultimi onesti e appassionati artigiani del cinema, è piuttosto impersonale quando non anonima, paga di una messinscena realistica di scarsa efficacia e di modesto valore visivo. Su tutto domina un che di jettatorio abilmente costruito a tavolino, ma non è nemmeno questo che impedisce la partecipazione emotiva: è, forse, la storia stravecchia, priva di pathos e piena di lungaggini e un gruppo di interpreti fin troppo bravi a seguire le discutibili indicazioni di direzione degli attori di Eastwood, il quale compone anche la colonna sonora pacchiana e chiama a raccolta, in un cammeo, il vecchio collega Wallach. Il classicismo di Eastwood (simile, guarda caso, a quello di Penn e di Robbins) non ha un solo abbaglio di sconvolgente modernità ma, allo stesso tempo, non ha neanche la tempra e la cultura dei vecchi registi americani ai quali vorrebbe essere imparentato: sa sensazionalizzare il lutto senza che sia mostrata un’intensa elaborazione del lutto e finisce per cadere nei più vieti stereotipi melodrammatici. DRAMM 137’ * ½
Roberto Donati
Recensione n.2
ANNEGANDO NEL FIUME DELLA VITA
In una grigia giornata tre ragazzi giocano su una strada. Vedendo del cemento fresco decidono di scrivervi il proprio nome, imprimendolo fisicamente nella memoria del tempo e dello spazio. Il terzo non farà in tempo a firmarsi completamente perché verrà rapito da due uomini che lo violenteranno per diversi giorni, fino a quando non riuscirà a scappare.
Quando molti anni dopo viene uccisa la figlia di uno dei tre amici, che nel frattempo si sono allontanati, perdendosi di vista, l’occasione li ricongiunge per un attimo per poi distruggerli nuovamente.
Mystic river si allontana dallo stile classico di quell’autore/garanzia che è Clint Eastwood, la luce della fotografia si incupisce, tendendo verso quell’oscurità che metaforicamente richiama la condizione umana. È un film apolide per Eastwood perché privo di ironia, caratteristica prima della sua filmografia, almeno da Gli Spietati in poi, e perché è coperto di una fuliggine esistenziale che lo rende pregno di un pessimismo radicale. La vicenda raccontata copre spazio (il quartiere) e tempo (un’intera vita), e tocca argomenti di un realismo e una profondità assoluti. Non è solo un ottima de-costruzione dell’effimero sogno americano, o uno studio sull’origine del male, ma è anche un discorso sulla vita e la morte, sui significati che vi fanno da cornice.
L’intera pellicola è racchiusa fra due simboli tipicamente americani: una discussione su una partita di baseball e la sfilata del Columbus day. All’interno di queste due parentesi si trova la tesi, dimostrata per difetto, sul male, sulla sua natura evidentemente intrinseca al nostro essere, descritto come un serpente che si annida nella parte più nascosta del nostro cuore, nei rapporti con la gente, persino nella speranza scaturita da un figlio. Perno centrale della vicenda sono i tre protagonisti, uno poliziotto, uno delinquente ed un altro mentalmente instabile. Da contorno ci sono le loro famiglie. La famiglia appunto è vista come elemento di incoraggiamento, luce nell’oscurità. Ed è proprio la morte di un membro di una famiglia (la figlia di Sean Penn, il delinquente) a suffragare apparentemente tale teoria.
Abbiamo due tragedie: quella iniziale in cui è coinvolto il ragazzino che contribuisce la dispersione dei tre, i quali si perdono di vista, ognuno prendendo la propria strada. La seconda (la morte della giovane diciannovenne) tende a riavvicinare i tre, che si ritrovano a dover affrontare il presente, ma soprattutto il passato. Ma è solo qualcosa di momentaneo, sfuggevole, anzi sarà questo evento a peggiorare ulteriormente i rapporti, fino alla tragedia finale, dimostrazione di ciò che Eastwood aveva intenzione di trasmettere: e cioè che i valori che sembrano essere così rilevanti nel corso del film, sono assolutamente inesistenti, c’è solo egoismo (il discorso finale della moglie di Penn), inaffidabilità (la moglie di Robbins che lo tradisce), impermeabilità ai sensi di colpa (il gesto finale di Penn). È pessimismo puro, in cui non c’è soluzione. Anche quando la situazione, ormai disperata, sembra accennare ad un minimo di ottimismo (la riconciliazione di Bacon con la moglie incinta), l’intuizione ci fa capire che non c’è soluzione nel rifugio della famiglia, come dimostrato dagli altri due casi.
Così, dopo aver studiato l’amore temporaneo sui Ponti di Madison County, dopo aver sfiorato il Puro scappando nello spazio in Space cowboy, Eastwood va più a fondo e si immerge in ciò che sta sotto il ponte, sotto il cielo: un fiume silenzioso, scuro, prigione di vendette e di urla disperate, simbolo fluido del nostro esistere. L’ultimo sguardo del film è dedicato a questo: un fiume imperioso che ci scorre sotto gli occhi, talvolta accarezzandoci talvolta tirandoci giù, nelle sue profondità segrete.
Andrea Fontana
Recensione n.3
ATTENZIONE: ci sono un paio di piccoli spoiler all’interno della
recensione… come al solito e’ roba da poco, pero’ ho avvisato…
Perfetto quanto malinconico e doloroso questo film e’ una lama tagliente, e’ un’operazione a cuore aperto, come quella del suo precedente film, il mitico Clint Eastwood ci regala ancora una volta un raro esempio di cinematografia essenziale e ricercata nello stesso tempo. Una regia asciutta e rigorosa, direi formale, che non dileggia in particolari, anzi offre forse un’opera apparentemente sottotono, quasi sussurrata, ma e’ solo un’apparenza, mischiata al fuligginoso chiaroscuro delle inquadrature vagamente retro’, come un film degli anni ’80. Recitazione sublime, attori a livelli eccelsi, storia un tantino prevedibile che vira in un melo’ a volte ostentato ma anche dichiaratamente ricercato. Rimangono alcuni passaggi non troppo chiari, tipo perche’ la moglie di Penn non parla mai se non alla fine del film con quel discorso de “l’invulnerabilita’ della famiglia”, che senso ha la storia secondaria del detective e i suoi “discorsi solitari” al telefono con la moglie, e alcune lungaggini che sicuramente si sarebbero potute sveltire in qualche modo, ma si perdona tutto perche’ il film e’ di un’intensita’ rara. La vita dei protagonisti e’ collegata al sottile filo del destino che ingoia inesorabilmente le loro fragili vite, e il loro dolore che cercano di nascondere non e’ altro che la proiezione di una vita passata a fare scelte sbagliate i cui errori rimbalzano in continuazione senza condurli alla via d’uscita. Pagandone ancora le conseguenze. Uno dei film piu’ belli di Clint, se non il migliore, cinico e crudele come non mai, che non si lascia ricattare dalla facile promessa di uno scontato happy-end. “Noi siamo ancora degli undicenni chiusi in uno scantinato che sognano unavita migliore diquesta prigione”, questa e’ la frase piu’ bella di tutto il film, e la scritta incompleta di Dave sul marciapiede alla fine del film e’ di certo la scena piu’ emblematica.
Voto: 8+
Wolf
Recensione n.4
C’e’ un parallelismo poco confortante tra l’ultima fatica di Clint Eastwood e “21 Grams”, il nuovo film di Alejandro Gonzalez Inarritu a breve sugli schermi: il modo assolutamente gratuito attraverso cui gli eventi sfociano nel dramma. Ma il vero trait d’union e’ Sean Penn, da sempre (tranne poche trascurabili eccezioni, tipo “Non siamo angeli” di Neil Jordan) garanzia di grevita’ e destinato a insopportabili scene madri. Lo spunto e’ una sorta di “It” sotto il cielo plumbeo di Boston ma senza la fantasia salvifica di Stephen King: tre ragazzini, uno dei quali traumatizzato durante l’infanzia, si ritrovano, ormai adulti, ad affrontare da tre punti di vista diversi una nuova tragedia, pronta a risvegliare i fantasmi, mai sopiti, del passato. Il racconto e’ costruito con solidita’, ma tenta di abbinare lo sfaccettato percorso emotivo dei protagonisti con l’intrattenimento, fallendo entrambi i fronti. Nel dipanarsi della vicenda, infatti, i caratteri finiscono con l’assottigliarsi sempre piu’, fino a diventare monolitici e la vicenda gialla viene prolungata all’infinito per poi congiungere, di colpo, tutti i tasselli, con una trovata ad effetto ma a credibilita’ zero. Molti i temi affrontati: senso di colpa, redenzione, destino, vendetta, dolore, ma tutti scolpiti in una sceneggiatura ricattatoria che li ingigantisce senza approfondirli. Il film vive di contrapposizioni forti: la bambina che fa la Prima Comunione mentre si scopre il cadavere martoriato della sorella maggiore; i tre ragazzini del prologo che si trovano a fronteggiarsi dopo trent’anni in ruoli antitetici. E la furbizia dello script e’ appena attutita da una messa in scena secca e rigorosa, valorizzata da una luce livida e da un commento sonoro di minimale efficacia. Se il prologo, nella sua essenzialita’, ha un impatto quasi devastante, via via che i fatti scorrono, si percepisce sempre di piu’ la forzatura di una shakesperiana resa dei conti. Stonano anche alcuni personaggi secondari, dalla madre del giovane fidanzato della vittima, che pare uscita da una sit-com, alla silente moglie del poliziotto Sean, di rara inconsistenza. Gli interpreti, sia maschili che femminili, sono invece tutti in parte, ma il racconto corale e’ sovrastato dalla vocazione al titanismo del gia’ citato Penn. Nulla ci viene risparmiato della sua calata agli inferi e ce lo dobbiamo sorbire in tutte le gamme della disperazione, solo o con altri, quasi sempre invadente. Di tutti i confronti, il piu’ riuscito e’ quello con la brava Marcia Gay Harden,nella notte, in cucina, per una volta ispirato alla sobrieta’ e con piccole notazioni (lei che chiude lo sportello della credenza rimasto aperto) a conferire un tocco di autenticita’. La colpa non e’ comunque tutta del pur bravo Penn, ma anche del suo personaggio a tinte forti e della costumista, che lo agghinda in grottesca progressione fino a renderlo clone di Bono degli U2, oltre che ridicolo (vederlo, per credere, con occhialoni o trench in pelle). Anche la riepilogativa parata finale, apoteosi di un’apparenza che cela colpe rimaste tali, poco aggiunge alla negativita’ esasperata della storia. Un ritratto di periferia in nero che si risolve in un pessimismo di taroccata geometria.
Luca Baroncini (de www.spietati.it)