Recensione n.1

Sullo sfondo di una Tokio nevroticamente moderna, dall’alto di enormi grattacieli, colorati a festa durante la notte, si contrappone la noia di due personaggi molto diversi fra loro, ma forse gli unici a trovarsi un pochino simili in mezzo a tutta quella giungla straniante. Un ex-attore in trasferta per pubblicizzare un whisky, consumato da una vita noiosa e triste e da un matrimonio logoro (l’unica ragione di vita sembrano essere i suoi figli) e una giovane ragazza sposata con un fotografo che l’abbandona a se stessa in mezzo alla caotica metropoli.
Tra i due nasce un’amicizia particolare, quasi complice, ma compassata. Si cercano sperando di eludere la tristezza che li circonda. Sofia Coppola ci racconta un film che sulla carta si prannuncia pesante, ma riesce ad inserire qualche tocco velato di umorismo per non scadere nella faciloneria. Risulta ottima la scelta dei personaggi, ancora di piu’ Bill Murray, estremamente convincente nella parte. Giocato sottotono, alternando i momenti silenziosi con il fragore dei pachinko e dei bar-karaoke, il film e’ molto meno banale di quello che puo’ sembrare a freddo.
Il merito della regista e’ di creare e suggerire emozioni che non vengono ostentate, ma rimangono imprigionate nella fredda lucidita’ dei protagonisti. Per una volta potevano risparmiarsi l’assurdo sottotitolo italiano: amore?… ma nel film non si parla di amore, non si vede. E’ qualcosa di subliminale, effimero, che forse solo lo spettatore puo’ interpretare a suo piacimento.
Volendo, si puo’ parlare di una promessa: la promessa di un amore che non puo’ esistere.
Lost in translation.
Voto: 7+

Wolf

Recensione n.2

Essere in un altro paese, in solitudine, non parlando la lingua, può essere un’esperienza straniante, nuova, che induce a pensare, che fa nascere spazi inesplorati nella propria vita. Questo è il presupposto di “Lost in translation”, letteralmente “persi nella traduzione” (e non, erroneamente, “L’amore tradotto” come è nella versione italiana), ultimo film di Sofia Coppola, che affronta l’esperienza di due persone in un nuovo mondo, ignoto e lontano, che si incontrano in una terra di mezzo in cui possono nascere esperienze mai vissute. Bob Harris ( Bill Murray) è un attore americano che viene chiamato in Giappone per girare uno spot per il mercato nipponico. Non parlando la lingua si trova spesso in situazioni paradossali in cui gli interpreti (i traduttori), non particolarmente brillanti, sono l’unica connessione con un luogo sconosciuto. Nella sua vita silenziosa lontano dalla logorrea statunitense, Bob, incontra in un bar una ragazza, Charlotte (Scarlett Johansson), moglie di un fotografo, che trascorre le sue giornate da sola, “abbandonata” dal marito impegnato nel suo lavoro. Fra Bob e Charlotte nasce un sottile ed intimo scambio di sguardi e di sensazioni, come se ognuno dei due trovasse nell’altro un elemento di tranquillità e, allo stesso tempo, di scoperta, di qualcosa di diverso dalla vita quotidiana.
Il tocco registico della figlia del padre Francis Ford dona al film un’atmosfera che sostiene la brevità dei dialoghi, aspetto caratterizzante del lungometraggio, girando solo negli interni (il bar, l’hotel, il set), spazi protagonisti e unici dove i protagonisti si muovono.
La sceneggiatura, scritta dalla stessa Coppola, possiede una magia che ha nel silenzio e nella parola non detta, o non percepibile, il suo piccolo segreto. “Lost in translation” è’ l’incontro-scontro fra tre distinte situazioni: il confronto con una realtà che non si conosce, il Giappone; la condivisione della realtà rappresentata dalle relazioni personali (le telefonate con la moglie per Bob, i risvegli alla mattina per Charlotte); il realizzare di essere se stessi di fronte a una persona appena conosciuta. Supportata da due interpretazioni immense degli attori, che sostengono il film, la trama, costruita su atmosfere lontane come è il luogo in cui l’azione si svolge, si riduce nella semplicità e nel minimalismo delle azioni. Il risultato è un amore non detto, non manifestato, o solo abbozzato, dai due protagonisti che si trovano impacciati in uno spazio non loro. Lo spettatore vive le emozioni degli sguardi e dei gesti che nascono dalle situazioni, improvvisate e non costruite, in cui sono coinvolti Bob e Charlotte, che immaginano il loro amore nella mente, annacquato e disperso in una città del Sol Levante.

Mattia Nicoletti

Recensione n.3

Giappone e America a confronto nell’incontro di due solitudini a Tokio: lui e’ un divo in trasferta per una pubblicita’, lei la giovane sposa di un fotografo di moda molto quotato. Entrambi americani a disagio in terra straniera, lontani da amici e conoscenti, perduti in un grande e lussuoso albergo, si incontrano, un po’ per caso, un po’ per sopravvivere alla noia e stabiliscono un contatto. E’ tutto qui il lungometraggio di Sofia Coppola che, dopo il deludente “Il giardino delle vergini suicide”, sembra non essere piu’ assillata dalla necessita’ di dimotrare di non essere una raccomandata. Nella prima parte il film si impaluda nei luoghi comuni, con i giapponesi filtrati da un punto di vista occidentale, tutti salamelecchi e moine, orribile televisione, stupidi passatempi, alta tecnologia e karaoke. I siparietti comici di Bill Murray alle prese con gli inconvenienti di un’altra cultura, pur strappando qualche sorriso, paiono vittime del pregiudizio. Per fortuna non e’ questo cio’ che interessa alla giovane regista, che infatti si sofferma soprattutto sull’incontro dei due protagonisti: entrambi profondamente infelici e incapaci di dare una svolta costruttiva alla propria vita. Riusciranno a trovare, l’uno nell’altra, uno spiraglio di calore, coccole reciproche e affetto. Niente sesso, non e’ quello di cui sono deficitari, ma un tepore in cui trovare rifugio, in cui potersi esprimere liberamente senza sentirsi giudicati. Impaginato con eleganza, molto attento alle scelte musicali e sonore, ben interpretato (soprattutto da Scarlett Johansson, giustamente vincitrice del premio per la migliore attrice nella sezione Controcorrente, mentre l’apparente imperturbabilita’ di Bill Murray ha ormai stancato), il film rischia piu’ volte di disperdersi per poi riacquisire intensita’. Volutamente raggelato, “Lost in translation” sconta un certo distacco anche a causa dei personaggi rappresentati: le dinamiche emotive sono universali, ma le pene di due miliardari in vacanza creano per forza di cose un’empatia limitata.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)