Recensione n.1

Dogville: La Storia

Dogville, città del cane, il nome più stupido che si sia mai sentito per un paese.
Un nome stupido per della gente semplice, tanto semplice che apre una porta che non esiste, che innaffia piante che non ci sono, che dà l’osso ad un cane che è solo disegnato per terra, e che compie semplicemente e quotidianamente il proprio lavoro. E se in questo surreale paese, isolato tra le montagne, arrivasse una straniera, una ragazza bisognosa di aiuto, come si comporterebbe questa gente? Le darebbe asilo? La caccerebbe? Avrebbe paura perché romperebbe l’equilibrio delicato di una vita tranquilla?
Dilemma risolto, basta tenere la ragazza in prova per un periodo e poi si decide. Ovviamente la ragazza, Grace, deve ricambiare l’ospitalità in qualche modo, ecco allora che si mette al servizio di ogni famiglia che abita il paese: aiuta in negozio, assiste una paralitica, fa assistenza e compagnia ad un cieco, aiuta un agricoltore a cogliere le mele nel campo (quelle per fortuna si vedono), dà lezione ad un futuro ingegnere poco intelligente, bada a dei bambini facendo anche da maestra, gira le pagine dello spartito alla ragazza addetta al suono dell’organo (ma senza una chiesa) e al suono della campana in caso di minacce dall’esterno. Questo è Dogville. Solo questo. C’è un ragazzo, poi, Tom, aspirante scrittore, che sembra essere la guida spirituale di Dogville e fortunatamente è subito dalla parte della bella fuggitiva, è lui che l’ha accolta e che poi la sostiene, facendo da intermediario tra lei e i fantomatici abitanti del paese.

In questo scenario si sviluppano i rapporti tra i vari personaggi, rapporti che si evolvono in continuazione, mettendo sempre in discussione la possibilità, per Grace, di restare. Sì perché man mano che passa il tempo la responsabilità come anche il pericolo per gli abitanti aumenta sempre di più, dal momento che si scopre che la bella Grace è ricercata dalla polizia. E nascondere una ricercata è molto pericoloso. Costa di più che nascondere una persona qualsiasi. Come ricambiare allora quella gente che rischia ogni giorno per proteggerla? A Grace viene chiesto di raddoppiare gli orari di lavoro, lavora molto di più, tutto il giorno, tutti i giorni.
Ma sembra che non basti. E’ molto servizievole verso questi abitanti che pare le stiano salvando la vita e forse il problema è proprio questo, lo è troppo: è servile. E’ colpa di Grace se a un certo punto l’agricoltore tenta di baciarla e alla fine la violenta nella sua casa, perché lei ha lasciato intendere il suo amore per le mele, per quel lavoro e ha dimostrato affetto a quell’uomo. Non può tirarsi indietro perché è lei che ha fatto scaturire quel desiderio, con la sua esasperata disponibilità. E nella stessa ottica, tutti gli abitanti piano piano pretendono da lei prestazioni sessuali, con la giustificazione che il prezzo per nasconderla è inevitabilmente salito. La vanno a trovare in casa, abusano di lei sul carretto dopo la falsa promessa di portarla via, e la cosa sconcertante è che lei è remissiva e arrendevole, tutto accade con la sensazione che niente e nessuno è in grado di porre fine a quelle nefande circostanze. Anche Tom resta a guardare. E come se non bastasse, viene accusata di furto e le viene attaccata al collo una catena che trascina una ruota pesante. Viene violentata anche così, legata, indifesa, esausta. Peggio di una bestia. E’ questo il vero animo dell’uomo?
Alla fine arriva su Olm street, la strada principale del paese, (strada degli olmi, che fanno ombra al viale, anche se gli olmi non ci sono), la macchina misteriosa da cui Grace fuggiva all’inizio. Gli abitanti la consegnano e anche Tom è d’accordo: era arrabbiato perché Grace aveva dubitato della sua moralità, quando lui era l’unico che non aveva mai abusato di lei. In realtà era costernato perché Grace aveva ragione, anche lui desiderava il suo corpo e in tutti quei bei discorsi sani che faceva si era reso conto che non ci credeva, pensava di essere diverso dagli altri, di elevarsi grazie alla scrittura, ma in realtà, il suo animo era meschino come gli altri. Era stata Grace a rivelargli questa agghiacciante verità. E doveva pagarla. Grace sale nella macchina in cui sedeva l’uomo che la cercava e dice, “Papà, perché sei tornato?”. Grace semplicemente non voleva diventare come la banda di gangster assassini di suo padre, e perciò era scappata. La discussione con il padre è davvero significativa perché nasconde l’ambiguità dell’animo umano. Dapprima Grace difende gli abitanti del paese, “Anch’io avrei fatto la stessa cosa, se fossi stata in loro”, poi pian piano sembra ricredersi e rendersi consapevole degli infami soprusi di cui è stata vittima e chiede, “Papà, quando è che mi daresti il potere di cui mi parlavi?”, e il padre risponde “Anche subito”. E Grace con quel viso d’angelo si rivolge ai gangster e con freddezza dice, “Uccideteli tutti e poi bruciate il paese”.
E’ questo il vero animo dell’uomo?

Dogville: L’Analisi

Il regista Lars Von Trier con questo film vuole mostrare la crudeltà dell’animo umano. Un’efferatezza spietata e un sadismo gratuito che colpiscono la sensibilità dello spettatore. L’animo umano è cattivo per natura, profondamente malvagio e anche se all’inizio esso si mostra positivo poi alla fine rivela la sua vera natura. Gli abitanti che all’inizio nella loro semplicità sembravano così buoni e disponibili, alla fine si rivelano dei personaggi davvero diabolici, sia gli uomini che abusano di lei, sia le donne che sono capaci di cattiverie inaudite. E il fatto che siano delle persone semplici dimostra ancor di più come la malvagità sia propria dell’animo umano, chi più di queste persone, non corrotte da alcuna devianza, può mostrare chiaramente il vero animo dell’uomo?
Appare la vecchia e classica dicotomia natura/cultura, per cui il dilemma da risolvere è se l’uomo è corrotto per natura o se viene corrotto dalla cultura, nel senso più ampio del termine. Ecco, il regista la risposta l’ha trovata: l’uomo è malvagio di natura. Anche Grace rivelerà alla fine il suo vero animo, malvagio. E qui vi è anche un insegnamento. Visto che la società è malvagia, non si deve essere troppo disponibili, troppo servili, perché poi si viene meschinamente ricattati, come è avvenuto per Grace, e si viene inghiottiti dal fradiciume che dilaga e circonda ognuno di noi.
E quello che viene rappresentato è l’animo umano nella sua nudità, come è realmente quando non è nascosto da falsi moralismi e ipocrisie. Per questo il paese è semplice e isolato, perché è simbolico, viene rappresentato come un villaggio primitivo, come un paese che non è stato contaminato dalla civiltà, perché la malvagità è comunque insita nel genere umano.
La nudità dell’apparato scenico è la nudità dell’animo umano: le case sono senza pareti, perché l’animo di chi ci abita non ha segreti per nessuno, non ha niente da nascondere. E questa semplicità è ben resa anche con il resto della scenografia (pochi oggetti essenziali, solo a far comprendere l’attività dell’individuo, come la scrivania e l’organo) e con i costumi dei personaggi. Ecco allora la scelta scenografica (e non solo) del teatro, tutto si svolge su questo piano che sembra un palcoscenico teatrale. Le stanze sono divise da una linea bianca disegnata per terra, è presente solo qualche oggetto, e quindi l’attenzione è catalizzata sui personaggi e sui loro dialoghi. Importante e significativa la sceneggiatura, molto densa, presenta spunti degni di valide riflessioni. Proprio per questa rarefazione visiva, tutto è volutamente concentrato sulle parole dette, anzi recitate (in perfetto stile teatrale). La voce narrante che percorre tutto il film del resto è una conseguenza di questo, valida voce guida che supporta e giustifica comportamenti e cambiamenti narrativi e visivi.
Significativa la strage sanguinosa nel finale: a differenza del surrealismo evocato e caratteristico di tutto il film, la strage appare molto realistica, con il rumore degli spari, il rosso del sangue e delle fiamme, e le grida di aiuto dei bambini. E questo perché deve apparire chiaro il messaggio: l’uomo è crudele, non esiste nessun perdono e nessuna pietà, nemmeno per dei bambini. La stessa Grace (gli altri sono uccisi dai gangster) ucciderà con un colpo di pistola alla nuca (modalità tipicamente guerresca e cruda) Tom, “certe cose bisogna farle da soli”, dirà a suo padre. Uccide lei stessa colui che alla fine l’ha tradita più di tutti, perché non è stato in grado di proteggerla, perché si è rivelato diverso da quello che le aveva fatto credere e che forse credeva (o si illudeva) anche lui di essere. E questo è un tradimento e un torto ancora più grave di quelli che ha subito, perché non ha coinvolto solo il corpo, ma la sua mente, il cuore, i sentimenti. Rimarrà vivo solo il cane (che stranamente dà il nome a un paese che ora non c’è più), unico essere vivente del paese che non ha fatto del male a Grace, anzi che ne ha subito un torto (Grace all’inizio per la fame gli ruba l’osso). Per questo verrà risparmiato, unico testimone di quello che è accaduto. L’inquadratura finale è proprio sul cane che abbaia e che miracolosamente diventa vero. Come fosse stato rotto un incantesimo, come se la vendetta (altra efferata crudeltà) fosse quindi l’esito positivo, la soluzione, l’unica via d’uscita a quell’inferno vissuto prima da Grace e poi dagli abitanti.
E se Dogville nasce come critica agli Stati Uniti ed è alla base di una trilogia (che proseguirà con “Mandalay” e “Washington”), poco importa. Quello che veramente conta è dimostrare la crudeltà del genere umano. Il film fa riflettere e mette in guardia: troppa bontà gratuita, esasperata fino al servilismo, potrebbe ritorcersi contro di noi, procurandoci danni irreparabili.

Marta Fresolone

Recensione n.2

In molti hanno gridato al capolavoro per quest’ultima pellicola del danese Lar Von Trier, ma “Dogville” non ha conquistato nemmeno un premio, dei tanti preannunciati alla 56^ edizione del festival di Cannes. E non si può certo parlare di una svista, dato che la giuria – presieduta dal francese Patrice Chèrau, e composta, tra gli altri, dall’attrice americana Meg Ryan e dal regista Steven Soderberg – ha assegnato molti doppi riconoscimenti, premiando alla fine solo 4 film, invece degli otto previsti.
Comunque sia, la calda accoglienza della critica internazionale può certamente compensare l’indifferenza della giuria e Lars Von Trier deve ritenersi soddisfatto di questo suo primo episodio di una trilogia sull’America, che sicuramente affascinerà il mondo intero.
Nel progetto del regista c’è la volontà di fare un esame dei vizi e delle virtù di questo paese, a tutt’oggi così contestato Ma “Dogville” sembra essere davvero spietato con gli U.S.A. e con il popolo americano in genere. La storia è quella di una bella fuggitiva che un giorno, nel tentativo di sottrarsi alle grinfie di misteriosi gangster, arriva nella città di Dogville. Questo è posto davvero irreale, non solo perché le case e le strade sono solo disegnate col gesso invece che costruite con cemento ad asfalto, ma anche perché gli abitanti sembrano essere tutti onesti e buoni e pronti ad aiutarla senza troppe resistenze. Alla ragazza, infatti, viene subito data una casa, (sempre disegnata per terra!) ed un lavoro. Potrà vivere al sicuro a Dogville, corteggiata dal ragazzo più bello e giovane della città e protetta da tutti gli altri. Questo finché non arriva nella quieta cittadina un poliziotto che affigge sulla piazza un manifestino con una ricompensa per chiunque ritroverà la bella fuggitiva. A quel punto gli abitanti di Dogville si scopriranno meno virtuosi di quanto non sembrassero e chiederanno alla ragazza di lavorare sempre di più, per compensarli dal pericolo che corrono nel nasconderla e per tenerli lontani dalla tentazione di denunciarla. Lars Von Trier sembra questa volta aver voluto sfidare il Dogma, per realizzare un film completamente in contrasto (a parte l’uso della macchina a spalla) con quanto contenuto nel manifesto del suo movimento. Ma il vero handicap di “Dogville” non è quello di aver trasgredito a qualche regola, perché anzi questo potrebbe essere il sintomo positivo di una continua ricerca, ma piuttosto l’aver realizzato una pellicola formalmente stupefacente, senza però arrivare a dire, nella sostanza, cose particolarmente profonde ed innovative. Il suo sembra un attacco totale-globale ad un’intera nazione e forse per questo, per questa vuota diffamazione di un popolo, che la giuria di Meg Ryan e Steven Soderbergh non l’ha voluto premiare. Ed ha preferito un film come “Elephant” di Gus Van Sant che la sua campagna contro i mali dell’America la conduce in modo serio, concreto e mirato.

Francesca Manfroni

Recensione n.3

Quando uno come Von Trier, intransigente per natura, scavalca con disinvoltura i dettami di quel realismo artigianale che da anni professa per cibarsi improvvisamente di teatro e letteratura, viene necessariamente da pensare che il coraggio di calpestare le proprie idee possa giungere solo in funzione di un capolavoro.
E’ pervasi da questa ottica che si assistono i primi minuti di Dogville, un’opera che in ultima analisi può esser letta come un film-concetto.
Ma nell’avvicinarsi al film giova più che mai partire dal principio, e il principio non può che essere quel ‘testa a testa’ con Elephant perso clamorosamente al Festival di Cannes. Perché sta lì, forse, nella distanza che separa i due film, la chiave di lettura di quest’opera e, in definitiva, la risposta al dubbio se sia o meno un capolavoro.
Paradossalmente il film di Van Sant conquista la Palma d’Oro servendosi di una ripresa esclusiva con camera a mano tanto cara al regista danese, proprio mentre egli sceglie di rinchiudersi in un teatro tra luci fittizie e allegorie.
Entrambi cercano di descrivere la nostra società, con un riferimento più che specifico a quella americana. Entrambi avviano inoltre l’indagine prendendo le mosse dall’interiorità dell’individuo: se Elephant si illude di penetrare l’interno di una scatola nera pedinandola da dietro le spalle, Dogville cerca nelle potenzialità evocativa della metafora e dell’analogia la chiave per calarsi nella profondità della natura umana.
Eppure, non potrebbero essere più distanti tra loro, separati da un approccio così antitetico: l’uno è metodo induttivo allo stato puro, una tabula che più rasa non si può, sulla quale viene registrato ogni movimento, ogni punto di vista, ogni granello di clessidra, dove il tempo e lo spazio costituiscono l’unica dimensione cognitiva alla quale aggrapparsi per trovare la risposta all’incognita degli adolescenti d’oggi; l’altro è invece deduzione filosofica che procede per meccanismi letterari (allegorie e simboli).
Il problema, infatti, è che Dogville non si limita a rappresentare uno specchio metaforico della società e dell’animo umano, ma nello scatto finale va oltre, fa probabilmente il passo più lungo della gamba, inneggiando ad un trionfo della repressione (i gangster) sulla comprensione caritatevole degli istinti bestiali (Grace/Nicole Kidman). La sparatoria finale è allora la celebrazione di un’umanità da educare, prima che supremo sfogo contro l’ipocrisia dei nostri tempi.
L’etica è così sconfitta. Non servono regole di comportamento convenute collettivamente, che lasciano spazio solo alla falsità e gli interessi personali, ma un’elìte di giudici (proprio i gangster, cui Grace si aggiunge) che decidano ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Una società animale che va educata, quindi. Questa la deduzione finale di un teorema che fin da principio conosceva la risposta esatta.
Elephant invece è meno presuntuoso nei confronti della verità, la cerca e la insegue a testa alta, senza troppe perplessità, ma non si illude mai di aver trovato il bandolo della matassa, nemmeno di fronte alla glaciale esecuzione nella scuola. Si limita a registrare l’impassibilità, gli occhi spenti e risoluti di quei ragazzi, per alzare infine gli occhi al cielo, a quelle nuvole che scorrono senza significati, senza apparente motivo.
E’ probabilmente questo a non esser piaciuto di Dogville ai giurati di Cannes: l’idea di un gioco in scatola che possiede una sola possibile conclusione, non lascia scampo ai dubbi, alle alternative dei giocatori. Tutto è già stato interpretato e giudicato a priori.
Al di la’ quindi della preziosa trasparenza scenografica, dell’idealità formale nella quale il racconto procede, delle scene di stupro toccanti, ma delicate, di alcuni spunti visivi di notevole poesia disseminati qua e la’, Von Trier pecca forse di superficialità di fronte ad una realtà che è troppo variegata per poter essere contenuta dentro un banale sillogismo.

Francesco Rivelli

Recensione n.4

L’ex paladino e nume tutelare del Dogma, il movimento che a metà degli anni ’90 s’impose come un fulmine a ciel sereno nello stanco e ripetitivo panorama cinematografico mondiale, torna sui grandi schermi con un film che farà certamente discutere. E come per il precedente Dancer in the dark sceglie una protagonista nota al grande pubblico, questa volta nientepopòdimeno che la bellissima e bravissima Nicole Kidman, ed il film, come del resto accadde per il precedente, guadagna non poco dal punto di vista dell’appeal commerciale: ora Lars Von Trier è sulla bocca di tutti quelli che si dichiarano anche solamente appassionati di cinema, ma ai tempi dello straordinario Le onde del destino, dei suoi film nei cinema provinciali nemmeno l’ombra. Non appaia fuorviante la premessa, io sostengo che l’uomo venuto dal paese di Dreyer sia stato in grado di raggiungere una certa fama internazionale senza rinunciare al rigore della propria poetica, e questo Dogville non fa altro che confermarne l’enorme talento, senza necessità di svendere l’arte, e con sé l’artista, al miglior offerente (leggi Hollywood). Si pensi che il film è ambientato in un paesino delle Montagne Rocciose, ma in realtà la location, l’unica utilizzata, è la ricostruzione di una comunità all’interno di uno studio scandinavo, ed il cineasta ha dichiarato di non essersi mai recato oltreoceano, in tal modo suggerendoci che il giudizio sull’America proviene dall’esterno, senza necessità d’una compromissione con il gigante produttivo d’oltreoceano.
L’ultimo atto della filmografia von trieriana conferma una propensione per l’estremo gia ampiamente presente nel passato, e la sceneggiatura ricalca nei punti essenziali lo script dei due film che ho pocanzi citato: una figura femminile fragile ed ingenua si trova invischiata all’interno di una piccola comunità all’apparenza candida e coinvolgente, fortemente edificata sui principi della famiglia e della religione. In realtà la disponibilità e l’affetto inizialmente dimostrato celano ben altri sentimenti. La novità di questo film consiste nel fatto che esso contiene una sorta di presunto ribaltamento, e da un punto di vista stilistico, e da un punto di vista tematico. Per quanto riguarda il primo profilo, l’effetto è immediato e spiazzante: le regole del dogma, in particolare l’uso di macchina a mano e la soppressione della colonna sonora, vengono in parte conservate, ma il contesto nel quale si svolge il film ci appare come una sfida; infatti il set è letteralmente disegnato sul pavimento, con tanto d’indicazione scritta delle vie, delle case, dei negozi. Per l’intera sua durata ci troviamo all’interno di questa minuscola comunità, formata in tutto da otto famiglie, per cui noi siamo liberi di curiosare all’interno di ogni abitazione, senza muri e senza ostacoli. Pare che Von Trier abbia voluto rendere manifesta l’artificialità del racconto filmico, palesandone la sua natura di finzione, forse per suggerirci che in fondo, scansato l’equivoco che vedeva nel Dogma un tentativo di restituire allo spettatore una realtà naturalistica ed oggettiva, quest’ultima non esiste, e quindi il reale appare solo come una personale interpretazione che ognuno di noi dà del dato concreto. Esistono dunque tante verità quante sono le persone che guardano, che ascoltano, che interpretano. Per questo motivo parlo di presunto ribaltamento, poichè le regole ed ambizioni del Dogma vengono qui chiarite e non sconfessate, ed il tentativo posto in atto dal gruppo di cineasti scandinavi è teso ad un recupero dell’autenticità del cinema classico, arte appunto costruita sulla finzione. Il cinema è quindi interpretazione della realtà, e funzione del regista quella di imporre agli spettatori il proprio punto di vista. Da notare l’alternanza tra la ripresa a mano, indagatrice degli animi dei protagonisti, e le riprese dall’alto che disegnano il paesino come una sorta di planimetria, mostrando i personaggi costretti in uno spazio chiuso e rigorosamente delimitato da linee verticali ed orizzontali, una specie di prigione dell’anima. Il film ha una complessa struttura, rimanda alla narrativa ed in particolare al romanzo classico, con quella sua divisione in un prologo e nove capitoli, e la conciliante voce fuori campo che si limita a comunicarci informazioni sulla storia ed in particolare sul personaggio di Grace, con un tono pacato che, almeno nel doppiaggio italiano, a me ha riportato alla mente la voce-off di Barry Lyndon. E non dimentichiamoci il teatro, le scarne architetture del film hanno una chiara matrice di origine palcoscenica.
Dal punto di vista tematico, al centro della storia troviamo ancora il sacrificio della protagonista, che nel suo cuore conserva una grande anima, una straordinaria sensibilità, e crede che l’amore sia in grado di salvarla e di redimerla dalla miseria e dal peccato che la circondano. Il tema del perbenismo religioso, bigotto e falso, pervade sempre l’opera del filmaker danese, analogamente a quanto avvenne al suo conterraneo Dreyer, del quale Von Trier pare abbia in parte raccolto l’eredità artistica. Solo che anche sotto questo profilo il film si distingue nettamente dai suoi predecessori, con un finale apocalittico col quale il regista dà un giudizio di complessiva condanna dell’intera società americana, e dove la vittima utilizza il potere, quello stesso che l’aveva resa schiava, per vendicarsi, poco importa se l’uno era di natura religiosa o morale, e questo di natura mafiosa.
L’ultima ripresa ci mostra, dall’alto, l’intero set spazzato via dalla furia della protagonista, proprio come se il film sia finito e gli scenari debbano essere smontati; resta solo il cane, probabilmente l’unica figura salvata dalla pesante condanna che invece colpisce tutti gli altri personaggi. La sofferta parabola di Grace non mancherà di commuovere, pure calata nella tipica atmosfera algida che contraddistingue lo stile del regista, e questo anche grazie all’ottima prova della Kidman, costretta in vestiti stinti e sgualciti che comunque non ne compromettono lo straordinario fascino. Come tutti i film di Von Trier, un’opera irrinunciabile nello scenario del cinema contemporaneo.

Mauro Tagliabue

Recensione n.5

Una donna dai principi etici incrollabili, che masochisticamente subisce le sopraffazioni del prossimo contrapponendo sfacciatamente la propria integrità. Un utilizzo abbondante della macchina “a spalla”, con dialoghi filmati anti-filmicamente, con una finzione esplicita che accentua l’iperrealismo della messinscena. Caratteristiche di Dogville, certamente, ma anche punti fermi essenziali di Le Onde del Destino e Dancer in the Dark, ultime prove di Von Trier.
Il dato saliente è che questi elementi sono solo il punto di partenza per un imprevedibile ribaltamento del cinema del discusso regista danese, che si reinventa completamente attingendo da svariate forme letterarie verso un insospettabile anti-dogma, il cinema della “fusione”, per definizione dello stesso Von Trier (Cinema + Teatro + Letteratura, queste le sue intenzioni).
Tipicamente letterario, vagamente retro e quasi settecentesco è il narratore off, che ricorda, con un pizzico d’ironia, gli affreschi storici alla Barry Lyndon. Il teatro è quello della crudeltà di Antonin Artaud, il teatro didascalico di Bertolt Brecht, da cui derivano la divisione in capitoli (elemento, però, che nella sua trans-teatralità potrebbe essere anche di matrice letteraria) e la didascalicità generale. Un cinema-teatro che stilizza fino all’eccesso, che presenta un villaggio che non c’è, nella misura in cui le case sono righe di gesso sul pavimento, realmente ammobiliate e collocate in immaginarie vie tratteggiate fra inesistenti giardini di meli. Il tutto in un teatro di posa in cui il realismo su cui Von Trier ha costruito la sua carriera è fulmineamente ripudiato. Una messinscena che, attraverso un simbolismo freddo e programmatico, accompagna meccanicamente lo spettatore lungo un ragionamento e una serie di concetti da assimilare, che non si limita a far riflettere, bensì suggerisce conclusioni e tesi e non ammette repliche.
E il film di Von Trier è così. Grace, il cui nome è già un simbolo di scontata lettura, rafforzato dall’aspetto angelico della bellissima Nicole Kidman, giunge nel “paese del cane”, Dogville, piccola comunità rurale dell’Ovest montuoso degli Stati Uniti d’America, paradigma, però, di tutte le piccole e chiuse comunità, e dell’intera civiltà dei consumi occidentale, e in particolare degli Stati Uniti, che di questo mondo capitalistico sono ormai la guida. L’arrivo della divina Grace, preceduto da alcuni spari, è in realtà una fuga di quest’ultima da sconosciuti gangster. Null’altro sapremo di lei fino alla fine. La comunità, spinta dai suggerimenti di Tom, fragile guida morale e giovane aspirante scrittore, accoglie la ragazza, quasi per “educarsi” all’apertura e alla tolleranza. In cambio Grazia offre un’ora del proprio lavoro per ciascuno degli abitanti. E con la sua disponibilità, i suoi modi garbati, la sua (irritante) bontà conquista il cuore della comunità. Ma nel giorno del ringraziamento un poliziotto affigge un volantino con il di lei bel viso e una taglia in premio a chi la riconsegnerà, informando la comunità ch’ella sarebbe responsabile di improbabili rapine nei giorni immediatamente precedenti Una responsabilità oggettivamente errata, dal momento ce la fanciulla non si è mossa dal paese. Ma questo è sufficiente per il ribaltamento dell’ottica. La tentazione danarosa di denunciarla, il sospetto instillato dall’ufficialità della nota menzogna sono sufficienti a spingere gli abitanti di Dogville a pretendere sempre di più da Grace, fino alla degradazione morale e sessuale, fino alla calunnia, fino all’umiliazione. Ma, con una vocazione al martirio che colpisce lo spettatore accendendolo d’ira e facendolo solidarizzare con gli aguzzini, ella sopporta, comprende, non si ribella. Anche Tom per ultimo, la tradisce, e contatta i gangster.
Il colpo di scena, in verità un po’ prevedibile, è però vibrantemente narrato, e alimenta la catarsi. Il cinema di Von Trier rompe con il passato, l’irritante martirio per la vita dei film precedenti si ribalta in una furia iconoclasta che colpisce e rade al suolo gli stereotipi perbenisti del mondo americanizzato, la falsa accoglienza, la menzogna, il falso perbenismo, la fiducia in una legge di stato che si basa su mediatiche apparenze fabbricate ad hoc per colpire, distruggere e ricostruire. Il gangster è in realtà il padre di Grace, e dopo un dialogo che, curiosamente, sembra farsi carico della mole di critiche che i personaggi di Von Trier si erano attirati nelle prove precedenti (con un centralissimo filo conduttore: la moralità ostentata fino ad un fiero martirio non è la suprema arroganza di chi fino all’ultimo è convinto di essere nel giusto?), la vendetta arriva inesorabile. Il realismo ritorna prepotente, spari veri, urla vere, sangue e fiamme si abbattono su Dogville, Tom muore per mano della stessa sua amata vittima. E l’incantesimo si spezza: il cane Mosè, la componente irrazionale e impassibile della cittadina, viene risparmiato, proprio come il patriarca biblico, e, da disegno di gesso sul pavimento, si materializza, in “cane ed ossa”.
Sugli splendidi titoli di coda, immagini di povertà pionieristica made in Usa accompagnate da Young Americans di Bowie, l’incubo finisce. E con esso, speriamo, anche Dogma ’95.
p.s. Straordinario il cast all star che Von Trier dirige con più equilibrio e misura che in passato. Oltre alla Kidman, bravissima, notevoli anche il giovane Paul Bettany, Ben Gazzarra, Lauren Bacall, Stellan Skaasgard e Harriet Handerson.

Simone Spoladori

Recensione n.6

Con “Dogville” Lars Von Trier conferma la sua geniale antipatia. Lo scopo primario del regista sembra infatti essere quello di farsi beffe di tutto e di tutti. In primo luogo dei precetti che lui stesso ha creato, dimostrando una buona dose di ironia e di sana incoerenza. E’ tutt’altro che “dogmatica”, infatti, la messa in scena e i rigidi principi, firmati dall’autore insieme ad altri cineasti danesi, non vengono solo disattesi, ma addirittura scardinati. A cominciare dalle sonorita’ verdiane a commento dell’azione, tutt’altro che diegetiche, per continuare con l’apertura di porte inesistenti, la sistemazione di cespugli che non ci sono e i lamenti di un cane solo disegnato per terra; come tutto del resto, dalle case ai negozi, all’intero paese in cui si svolge la vicenda. Il nuovo corso, etichettato come “fusionale”, prevede una suggestiva commistione tra cinema, teatro e letteratura ed e’ forse l’aspetto piu’ interessante del film, perche’ estremizza il linguaggio cinematografico provando a dire altro rispetto a regole ormai codificate ed entrate nella grammatica del cinema. Ma la geniale “arroganza” del regista danese non si limita a rivoluzionare l’aspetto visivo. Lars Von Trier si fa beffe anche degli attori, la maggior parte d’oltreoceano e spremuti, a partire dalla docile protagonista Nicole Kidman, per una critica, un po’ grossolana nella sua precisa connotazione geografica, nei confronti della societa’ americana. Anche i cliche’ cinematografici cadono sotto l’occhio tritatutto del regista, con un colpo di scena finale grottesco e dagli esiti improbabili. Di tutte le apprezzabili eccentricita’ di Von Trier, la piu’ indigeribile resta comunque lo sguardo morale che giganteggia nella sceneggiatura, dagli spunti interessanti e ricca di implicazioni, forzata pero’ a fine dimostrativo, nel caso specifico per spiegare la grettezza senza confini (ma soprattutto americana) dell’uomo. In questo senso la costruzione narrativa e’ gravata dal macigno della “tesi” da suffragare (costante di Von Trier anche nelle produzioni precedenti): da’ vita a personaggi in cui si riesce a credere, ma li manipola per sostenere una parabola pessimista. Non sono abbastanza forti, ad esempio, le motivazioni della protagonista Grace per costringerla a sopportare (e noi con lei) tutte le umiliazioni che subisce. Ad inquinare la forza del racconto contribuisce anche un eccessivo simbolismo: la rottura delle sette statuine, ad esempo, elle intenzioni apice della totale disgregazione di una precaria armonia,
cade un po’ nel ridicolo. Nonostante un unico set e un impianto in apparenza teatrale, e’ comunque il cinema a ispirare Lars Von Trier, che riesce ad imprimere dinamismo ad ogni inquadratura grazie all’uso manuale della macchina da presa, per una volta non solo vezzo d’autore. Si alternano cosi’ sequenze di sublime bellezza o inventiva (la pittorica fuga di Grace sul retro del camion, i divertenti titoli dei capitoli in cui e’ suddiviso il racconto, le vedute dall’alto che fanno sembrare il paese la plancia di un Monopoli in cui i personaggi sono pedine dell’autore onnisciente) ad altre meno efficaci (la resa visiva della strage finale; la voce off, a volte ridondante). Altro obiettivo da non dimenticare nel dileggio del regista e’ ovviamente il pubblico, ulteriore pedina della sua consacrazione. Il film si propone infatti come un’ennesima sfida all’omologazione dello sguardo, imponendo un punto di vista personale confezionato con furbizia. Puo’ piacere o non piacere, ma difficilmente lascia indifferenti. Cannes non si e’ lasciata incantare, ma a giudicare dalle recensioni (disallineate eppure infuocate, segno quindi di un grande interesse) e dai risultati commerciali (non eccezionali ma in costante ascesa), Lars Von Trier ha vinto ancora una volta, catalizzando su di se’ l’attenzione generale. Pero’, quasi simpatico questo geniaccio danese.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.7

Ho visto Dogville.
Sono andato ieri a vederlo ed ammetto di aver volutamente ignorato tutto quello che era stato scritto su questo film.
Sinceramente non mi sono accorto che si trattava del primo capitolo di una trilogia sull’America, ma penso sia relativo.
E’ un attacco duro e feroce alla cultura occidentale con la sua logica del profitto di cui il modello americano ne costituisce l’emblema. Diciamolo francamente, Lars Von Trier è un sadico, ma geniale per la sua capacità di rendere la crudeltà così maledettamente fastidiosa e farci vergognare di fronte a situazioni (mi riferisco alle violenze sessuali, psicologiche inflitte alla povera Nicole) già frequentemente presenti in altri film.
Rispetto alla precedente produzione, Lars sembra distaccarsi dalle regole del suo ‘Dogma’ se si esclude la presa diretta con telecamera a spalla’ e meno male aggiungerei. Non poteva essere più riuscita l’idea di rappresentare il villaggio come una plancia del Monopoli, il che permette di respirarne l’atmosfera e coglierne l’ ipocrisia e la meschinità.
Ma è soprattutto rifiutata l’idea di cinema degli altri film del ‘Dogma’ (improntati su una purezza realizzativa ed espressiva) per abbracciare la visione di opera multimediale, un connubio tra prosa letteraria (voce narrante, suddivisione in capitoli), teatro (ambientazione brechtiana) e cinema.
Una lode particolare va riconosciuta alla Kidman che ci stupisce sempre di più per la sua bravura e la capacità di cambiare pelle (si pensi solamente alla differenza abissale con la prova in Eyes wide shut: la sensualità ha lasciato il posto ad una donna contenuta e spietata).
Voto: 8,5/10;
Un consiglio: ANDATECI DI POMERIGGIO!!!

Mario Giannelli

UN’INTERPRETAZIONE PROVOCATORIA

Da IT.ARTI.CINEMA

Poiche’ in pochi nel newsgroup sembrano aver capito l’allegoria di fondo del capolavoro di Trier, vi riporto la giusta interpretazione (giusta perche’ confermata anche dal regista in un intervista):

SPOILER

Dogville e’ un ennesima allegoria della venuta di Gesu’, dove Grace (la grazia) e’ gesu’, il padre Gangster Dio, e Tom la filosofia. Trier si differenzia dalle altre allegorie perche’ stavolta gesu’ fallisce, perche’ il porgi l’altra guancia, l’innocenza e il perdono cristiano non funzionano perche’ si scontrano con la natura umana. Ogni personaggio e famiglia di Dogville ne rappresentano appunto un aspetto. La citta’ non ha caratterizzazioni reali (solo linee descrivono le case) perche’ deve rappresentare l’umanita’ in senso astratto. Trier manda un messaggio molto chiaro alla fine, perche’ come ha detto nell’intervista: “gesu’ cristo era un presuntuoso”. Il padre di grace glielo spiega nel bellissimo dialogo finale. Il film si chiude su Mose’, il cane, che rappresenta la dimenticata morale del vecchio testamento, molto piu’ rigida, ma che secondo Trier almeno funzionava e che oggi e’ stata dimenticata. Il film e’ sostanzialmente una ripresa delle argomentazioni con cui Nietzsche fece a pezzi il cristianesimo a suo tempo, ovvero l’evidenza che una filosofia della debolezza causa solamente uno squilibrio di forze. Se grace avesse difeso se stessa invece di mostrarsi accondiscendente, non solo lei non avrebbe ricevuto il male, ma neanche il villaggio. La scena in cui Grace spara a Tom (“ci sono cose che devonono essere fatte di persona!”), e’ la piu’ aperta accusa di Trier alla filosofia, colpevole di aver per 2000 anni usato il cristianesimo per i suoi scopi e di averlo poi tradito, senza averne compreso i limiti.

Mike