Titolo originale: The Texas Chainsaw Massacre
Nazione: UsaAnno: 2003 Genere: HorrorDurata: 98’ Regia: Marcus Nispel
Cast: Jessica Biel, Jonathan Tucker, Eric Balfour, Erica Leerhsen, Mike Vogel
Recensione n.1
Tanto per sgomberare il campo da eventuali polemiche, confesso subito il delitto: non ho mai visto l’originale hooperiano…non me ne vogliate, dunque, se ho trovato questo film un buon esempio di cinema di genere. Certo, se quale termine di confronto assumessimo il Tobe Hooper dei tempo d’oro ed il new horror settantesco, il piatto penderebbe sicuramente da quest’ultima parte, ma in tutta onestà credo che quel modo di fare cinema avesse degli intenti socio-antropologici, e per la verità anche politici (non a caso il primo film di Romero è del ’68), che fecero di quel periodo una delle più importanti stagioni del cinema contemporaneo. Niente di quel feroce ed accusatorio stile si ritrova nel film di Nispel, che và contestualizzato nell’epoca di realizzazione, quella odierna, nella quale i rigurgiti rivoluzionari sono ormai un ricordo lontano. Concentriamoci dunque sul meccanismo della suspance, che a mio modo di vedere viene utilizzato efficacemente sin dal suo primo innesco. Non fatevi ingannare dall’incipit del film, con la comitiva di giovani, tre ragazzi e due ragazze, in viaggio verso un concerto rock attraverso una landa deserta ed avvolta nel paesaggio rurale di un’anonima regione americana. Spinelli, battutine e Sweet Home Alabama ci fanno temere il peggio, tutti gli stereotipi del filmetto adolescenziale facile ed edulcorato sono rispettati, compresa la presentazione dei protagonisti, caratterizzati, come suol dirsi, con l’accetta. Ma sotto l’accetta, od il coltello, o più spesso la motosega, quegli splendidi corpi giovanili ci finiranno per davvero, e con un compiacimento ed una ferocia per il gioco al massacro che non vedevamo più da tempo al cinema. Il “gioco” prende il via dalla sequenza del suicidio della misteriosa ragazza incontrata sulla strada, che spezza la tranquillità della gita e conduce la storia verso lo sprofondamento negli abissi della follia, attraverso un continuo gioco di colpi di scena che, se a volte appaiono inverosimili, riescono nel loro obiettivo di tenere desta l’attenzione dello spettatore, coinvolto in un vorticoso gioco di misteri, scoperte, inseguimenti e momenti forti davvero niente male. Ottima la maschera di Lee Ermey, il sergente di Full Metal Jacket, nella parte dello sceriffo, una caratterizzazione fortemente ironica, cifra tematica alla quale il film non abdica mai, soprattutto nella presentazione dei “cattivi”, in realtà membri di una comunità arretrata e dispersa ai confini del mondo, che pagano la loro esclusione a causa della loro diversità, rispondendo a questa crudeltà con la medesima arma, ma in una maniera largamente più esplicita. L’assassino con la motosega imperversa forse un po’ troppo, ma la famiglia di pazzi di browninghiana memoria (ricordate Freaks?) è un campionario di caratteri allucinati e stravaganti, che consumano la loro vendetta nei confronti del perbenismo di facciata del mondo, che nasconde in realtà arroganza, umiliazione e sadismo, ed in verità pare che il regista ne assecondi le ragioni. Nel complesso l’opera non può dirsi perfettamente riuscita, in quanto a fronte del disgusto, del putridume e del disfacimento bene evocati soprattutto nelle scene del “laboratorio”, dove Leatherface si diverte a squartare, amputare e sfigurare i poveri malcapitati, si contrappone lo stile patinato di altri momenti, ed il tentativo di utilizzare una fotografia sporca, opaca, che conservi la cifra visiva del new horror girato con “due soldi”, a tratti appare nella sua evidente artificiosità. C’è poi una certa insistenza nei riguardi della carne, macellaia è la famiglia dei cattivi, le vittime finiscono appese ai ganci destinati a sostenere la carcassa di animali morti, la scena della cella frigorifera sono significative della ossessione che percorre trasversalmente il film, ed anche l’eccessivo, forse, compiacimento nel mostrare i corpi delle due splendide protagoniste, trova la sua ragione nell’essere contraltare della fine che poi i cinque faranno, ovverosia quello di carne da macello. Poco riuscita è invece l’idea di racchiudere il film in una parentesi realistica, la quale costringe il film in un’ottica cronachistica che dovrebbe indicare una presa di posizione, nei confronti di un tema dell’attualità, che francamente sfugge. Certamente il regista non vuole denunciare la violenza della società, che anzi pone in bella mostra. Tralasciando gli evidenti difetti ora sottolineati, e tralasciando una costruzione visiva decisamente sottotono, c’è da dire che il film spara efficacemente più di una cartuccia a sostegno del meccanismo di costruzione della suspence, e soprattutto manifesta un compiacimento per la violenza gratuita, al limite dello splatter ma innocua, funzionale al gioco al massacro nel quale il film si giustifica, che ai nostalgici del cinema di genere non potrà che far piacere.
Mauro Tagliabue
Recensione n.2
Ho voluto rivedermi l’originale di Tobe Hooper proprio la sera precedente del remake, in modo da valutare al meglio le differenze e le analogie fra i due.
Partiamo subito col dire che se la storia di base e’ rimasta pressoche’ intatta, rimangono delle differenze sostanziali nella scenggiatura, che comunque non pregiudicano in maniera eccessiva le due versioni, anzi, da un certo punto di vista e’ stata sicuramente coraggiosa la scelta di “rivederlo” in un’altra ottica.
La prima parte del remake mantiene vagamente l’aura del vecchio film, eliminando la grana grossa della pellicola originale si ha quasi l’idea di trovarsi di fronte allo stesso film, mentre la seconda parte diventa piu’ precisamente “moderna”, ma non ricorre mai allo stereotipo banale dei soliti “teen horror movie” che vanno di moda in questo periodo.
Una cosa che accomuna i due film sono i primi piani ravvicinati dei volti e degli oggetti per sottolineare l’alienazione dei personaggi e delgli ambienti. Poi c’e’ un non so che di grezzo di fondo, ovviamente piu’ rimarcabile nell’originale, ma discretamente riproposto anche in questa nuova versione che riesce a mantenere l’atmosfera disturbante quanto basta. Qua finiscono le analogie.
L’illogicita’ del susseguirsi degli avvenimenti nell’originale, qui trova invece un barlume di logica e anche la protagonista perseguitata sembra avere un po’ piu’ di cervello della sua “antenata”.
Altra cosa piacevolmente sorprendente e’ che il film pur non scadendo (eccessivamente) nel cattivo gusto, appare decisamente molto piu’ splatter rispetto all’originale, e questo e’ sicuramente un punto a favore. Tensione sempre a discreti livelli, buona la regia e il montaggio, validi i personaggi. Diciamo pure convincente e coinvogente quanto basta, questo Marcus Nispel ha fatto un lavoro piu’ che dignitoso.
A questo punto devo ammettere che ho preferito il remake dell’originale, non tanto per le scene di violenza gratuite, quanto per una linearita’ maggiore della trama che non sconfina nel ridicolo come invece mi e’ parso nel film di Hooper, che ormai purtroppo risente del peso degli anni e lascia un po’ il tempo che trova.
Poi come al solito, ognuno e’ libero di decidere come meglio crede…
Voto al remake: 6/7
Voto alle tette di Jessica Biel: 10
Wolf
Recensione n.3
Aperta trent’anni fa da Tobe Hooper, “quella porta” ha continuato a spalancarsi saltuariamente su mostruosita’ ufficiali (due i seguiti) e apocrife (il terzo capitolo di Claudio Fragasso) imprimendosi nella memoria del cinema e negli incubi degli spettatori. Il blockbuster-man Michael Bay ha fiutato l’aria da new-horror che si respira nelle sale e, complice l’assenza di fosforo cinematografico delle nuove generazioni, ha deciso di produrre l’ennesimo rifacimento. Provando, e non e’ facile, a uscire dal pregiudizio con cui si e’ obbligati a confrontare un prodotto originale con la sua scopiazzatura, ci si trova di fronte ad un film tutto sommato riuscito. Rispetto al “cult” di Tobe Hooper ci sono alcune varianti (che faranno inorridire o godere i fan), ma nell’insieme l’atmosfera di malsano orrore del capostipite e’ restituita con i medesimi effetti disturbanti. La storia, come i piu’ sapranno, prevede la dettagliata cronaca di un massacro: cinque giovani entrano per loro sfortuna in contatto con il delirio di una famiglia di cannibali assassini, sperduta in un punto imprecisato dell’immenso nulla che caratterizza il profondo sud degli Stati Uniti.
Una gita tardo adolescenziale diventa cosi’ una strage. Il fatto che l’allucinante racconto si ispiri a fatti realmente accaduti suscita un surplus di tremore. Il team di ragazzotti non brilla per simpatia e intelligenza (era cosi’ anche nell’archetipo), ma le psicologie sono assottigliate all’essenziale per lasciare spazio all’azione. I personaggi sono infatti colti alla sprovvista davanti ad una situazione di inaspettato terrore e l’unica cosa che possono fare e’ provare a reagire. Il film segue con grande senso del ritmo la calata agli inferi dei giovani protagonisti e riesce, cosa non facile, a contagiare anche lo spettatore, che si trova catapultato in una realta’ raccapricciante. La rozzezza dei movimenti di “Faccia di Pelle” e la determinazione con cui si accanisce sulle vittime, non si dimenticano facilmente, cosi’ come il repentino passaggio dalla vacua spensieratezza all’impensabile. Il regista (il tedesco Marcus Nispel) viene dal videoclip e si vede, ma non esagera con accelerazioni, rallenty e dettagli in primissimo piano: i momenti di tensione non si devono unicamente, come il piu’ delle volte accade nei blandi horror che stanno invadendo le sale da un anno a questa parte, a stacchi di montaggio o effetti sonori, ma proprio alla paura delle situazioni; lo splatter, inoltre, non diventa scopo primario, ma viene razionato con adeguata misura. Il direttore della fotografia Daniel Pearl e’ lo stesso dell’originale, ma ris etto alla sporcizia molto “seventy” del film di Hooper, sceglie immagini piu’ patinate (non per questo meno efficaci). Lo stesso Tobe Hooper ha comunque partecipato al progetto nelle vesti di co-produttore. Di un po’ irritante ci sono alcune scelte accalappia-teenager, come la bellezza da spot dei protagonisti o il look piu’ “vintage” che anni settanta, ma sono perdonabili strategie di marketing che si limitano a scalfire la superficie del risultato. Bruttino e furbetto (un seguito e’ in agguato), invece, il finalissimo alla “Blair Witch Project”. A uscirne con le ossa rotta, oltre ai personaggi, anche l’istituzione famigliare (covo di pulsioni malsane vissute come “normalita’”) e i rapport interpersonali (per una volta niente eroi e solo verso la fine fanno capolino la pieta’ e un briciolo di solidarieta’). Se tutto cio’ aveva un senso di rottura trent’anni fa, nel nuovo millennio non sembra volersi caricare di nuovi significati, a parte il semplice e sconfortante concetto (vero specchio dei tempi) che per salvarsi occorre essere i piu’ belli (vedere la protagonista Jessica Biel per credere). Pur scontando una sempre piu’ preoccupant assenza di fantasia e l’incapacita’ di far sopravvivere il cinema al passare delle mode (perche’ non rieditare il film di Tobe Hooper invece di rifarlo?) il remake di “Non aprite quella porta” e’ un riuscito film di “genere”. Meno ruvido del “cult” da cui trae origine, ma non per questo annacquato.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
Non aprite quella porta: recensioni film originale
Regia: Tobe Hooper
Soggetto e Sceneggiatura: Kim Henkel, Tobe Hooper
Fotografia: Daniel Pearl
Montaggio: Larry Carroll, Sallye Richardson
Scenografie: Robert A. Burns (non accreditato)
Musiche: Wayne Bell, Tobe Hooper
USA, 1974 – Horror – Durata: 83′
Cast: Marilyn Burns, Edwin Neal, Allen Danziger, Paul A. Partain, William Vail, Teri McMinn, Jim Siedow, John Dugan, Gunnar Hansen
Uscita: 1974
THE TEXAS CHAIN SAW MASSACRE – 01/01/1974
Rivalutazione parziale …
Rivalutazione parziale per questo film, che stroncai miseramente tre anni fa. Ma è passato del tempo, ho visto parecchi altri film e la mia visione, in qualche modo, deve essersi affinata.
“The Texas chainsaw massacre” apre alla grande, fotografie al buio di una macabra statua costruita con pezzi di cadavere in decomposizione; in audio, la notizia alla radio del ritrovamento di resti umani in decomposizione. Per la prima mezzora almeno Hooper costruisce efficacemente la suspense mandando un gruppetto di ignari ragazzotti in giro per il Texas e donando loro una serie di prelibatezze: un autostoppista idiota e maniaco del sangue e del fuoco, un cimitero attorniato da weirdos, macchie di sangue sul pulmino e, finalmente, una classica casa abbandonata.
E` qui che il regista raggiunge l’eccellenza: cifra tecnica della discesa dei cinque ragazzi negli inferi della casa mi sembrano, in particolare, (a) il carrello laterale (spesso unito alla mezza panoramica, con un effetto di avvolgimento e straniamento del personaggio davvero notevole) e (b) il dettaglio, specialmente riguardo agli oggettini che costruiscono il feticismo cannibale / animalesco del massacratore Leatherface. Effetti sonori (colonna sonora?) al limite del rumore completano il quadretto. Se cercate un’atmosfera malata e di orrido incombente, i primi tre quarti d’ora di TCM fanno per voi.
Da quando la ragazza viene catturata sino al termine e` spazzatura, ma ce n’e` abbastanza fin qui per poter dire che TCM e` un buon horror, che vale la pena vedere. Decisamente invecchiato, ma ancora apprezzabile sebbene ci voglia un po’ di occhio — un po’ come Dracula, per fare un paragone da bacchettate sulle dita. Nel 1974 e a un ragazzino doveva fare molta, molta paura.
Claudio Castellini
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Cinque ragazzi …
Cinque ragazzi arrivano alla casa dei nonni di uno di loro, nel Texas, senza sapere che i vicini sono dei selvaggi cannibali armati di martelli e seghe elettriche. Contro Leatherface (Faccia di cuoio, perché indossa una maschera fatta di pelle umana) – interpretato da Hansen – e la sua “famigliola”, solo Sally sfuggirà al massacro, ma il cattivo, per una volta, non muore. Ispirato a un fatto di cronaca nera accaduto realmente (la storia di Ed Gein, cannibale del Wisconsin che aveva già mosso la fantasia di Hitchcock per Psyco), la prima opera del texano Hooper (classe 1944) è uno dei più disturbanti e malati gore-movie di sempre, che si impone, per precisi meriti, come un eccezionale esempio di film di genere a basso costo (e rozzo se vogliamo): non promette, mantiene subito quello che gli spettatori si aspettano, cioè uccisioni e squartamenti (peraltro mai gratuiti) che creano immediatamente, senza l’uso classico della suspense e dell’attesa, un clima ossessionante di angoscia e paura: terrore e pazzia non sono mai più stati mostrati in un modo così efficace e fisico (altro che le “strullate” di Blair witch project). E la regia furibonda e realistica (stile sporco pieno di sgranature, sfocature, controluci e con la macchina da presa attaccata ai personaggi che va a cacciarsi persino dentro gli occhi), i suoni, i rumori (cacofonie e clangori metallici furono seguiti personalmente dal regista), l’ironia macabra e le voci rendono ancora più agghiacciante questa pietra tombale della sana provincia americana. I componenti della troupe non si potevano soffrire e forse questo ha contribuito alla riuscita del film, che naturalmente è un cult-movie. Mitico l’allucinato finale chiuso-aperto.
Voto: * * *½. .
Roberto Donati