USA 2003 di Tim Burton con Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Alison Lohman, Helena Bonham Carter, Steve Buscemi, Danny DeVito, Marion Cotillard, Ada Tai, Arlene Tai, Daniel Wallace
Recensione n.1
Al capezzale del padre Edward, il giornalista William Bloom vorrebbe scoprire chi è realmente l’uomo: ma Edward è proprio sé stesso soltanto quando racconta e romanza le avventure della sua vita. Dal romanzo di Daniel Wallace (che compare nei panni del professore di economia), una favola solare con cui Burton – a cui era morto il padre da poco e genitore per la prima volta durante le riprese – sembra ritrovare lo spirito ottimista e i colori caramellosi dei primi successi (Pee Wee’s big adventure e Edward mani di forbice su tutti) e trova il tempo di riecheggiare i numi artistici preferiti (tra cui, di nuovo, Fellini o Lynch): l’apparato fantastico funziona a meraviglia, sia pure con qualche sospetto di maniera e nonostante una sceneggiatura poco esemplare e una messinscena non sempre impeccabile (la fotografia di Philippe Rousselot non convince del tutto; la colonna sonora di Danny Elfman – con canzone finale dei Pearl Jam – di certo non brilla per originalità), mentre la morale esplicita – il potere dell’immaginazione è il vero miracolo del mondo – è capace di incantare e commuovere come nelle grandi fiabe. Stupore e meraviglia sono sinceri e passionali, ma la sensibilità del regista e la sua cura per le immagini paiono essersi un po’ raffreddate o, quantomeno, indebolite: e gli stessi attori, infatti, finisc ono per non trasmettere appieno la visione sognante di chi li ha diretti. Il cinema di Burton forse ha smesso di possedere la grazia e la leggerezza che sembravano congeniali al regista, ma continua a essere sogno del mondo e a impennarsi con niente e a trasmettere emozioni preziose se non rare. * * *
Roberto Donati
Recensione n.2
Big Fish: la favola
“C’era una volta un uomo straordinario che faceva imprese straordinarie”. Potrebbe iniziare così la favola raccontata a parole dell’ultimo film di Tim Burton, Big Fish. Mi è capitato più di una volta di raccontare una fiaba, si devono inventare e immaginare cose incredibili, concatenare eventi in maniera assurda e imprevedibile, non preoccuparsi troppo di dare un senso razionale allo svolgimento dei fatti. Ecco, Big Fish è semplicemente una fiaba raccontata davanti al camino o vicino al letto dopo aver rimboccato le coperte.
L’uomo straordinario racconta di pesci mostruosi, spaventosi giganti, streghe inquietanti, licantropi, sirene ammaliatrici, gemelle siamesi, e non è solo la presenza di personaggi fantastici a rendere fiabesca la storia, bensì lo scenario e la tecnica di narrazione, che hanno caratteri perfettamente fiabeschi. Lo scenario che racconta e in cui vive Edward Bloom (questo il nome dell’uomo) rimanda continuamente a tale immaginario: nel bosco stregato che attraversa, i rami tentano di stritolarlo, proprio come la Biancaneve dei fratelli Grimm; la stravaganza fiabesca continua nel paesino incantato dove Edward giunge, in cui gli abitanti vivono senza le scarpe per cui nessuno di loro lascia il paese, e a ogni nuovo giunto esse vengono tolte e appese in alto ad un filo; nel circo dove Edward trova la donna della sua vita, nel preciso istante in cui la vede, tutto il mondo attorno a lui si ferma, ma si ferma davvero. Lui continua a camminare verso di lei, in mezzo a tutte le altre persone immobili, sposta con la mano alcuni pop-corn sospesi nell’aria, e nel momento in cui li tocca, essi precipitano miracolosamente. Una scena ad effetto che ricorda molto lo scenario de “Il favoloso mondo di Amelie”.
Insieme allo scenario, anche la tecnica di narrazione non fa che seguire il codice favolistico.
Gli espedienti molto semplicistici dell’intreccio, che fanno da motore alla storia, sono tipici del codice da fiaba. Edward è l’eroe del paese, ma presto deve fare i conti con un nuovo arrivato, un gigante. Viene introdotto un nuovo personaggio (fiabesco) che rompe l’armonia: il gigante è l’elemento nuovo che sovverte l’equilibrio iniziale, secondo la struttura tipica che segue ogni fiaba. Essendo un elemento disturbatore, egli deve andarsene. E qui ovviamente ci pensa il nostro eroe. Per mandarlo via, egli accetta di andarsene con lui, dopo avergli fatto un ragionamento (solo) all’apparenza tanto banale: il villaggio è piccolo per lui, figuriamoci per un gigante. E da qui, iniziano le avventure dell’eroe errante, che del resto essendo errante non può che vivere avventure. La strada giunge ad un bivio e lui sceglie di percorrere la via più ispida e pericolosa, perché sia data linfa all’avventura. Tutto deve essere sensazionale, avviene una cosa dietro l’altra, è vietato respirare aria di normalità.
Ogni volta che si trova in pericolo, la salvezza è presto data, grazie all’occhio di vetro della strega che gli ha premunito la sua morte. Sa di cosa morirà e questo lo renderà sicuro nei momenti di pericolo. Arriva ad un villaggio incantato, ma deve andarsene, e l’espediente utilizzato è semplicissimo e presto trovato: il suo amico gigante lo aspetta. Senza troppe spiegazioni, i due poi si trovano spettatori in un circo e qui il gioco risulta facile, all’amico gigante viene fatto immediatamente un contratto. Edward dal canto suo trova la ragazza dei suoi sogni, la vede in fondo al tendone e ai suoi occhi si illumina, isolandola dal contesto, come effettivamente visivamente avviene grazie all’occhio di bue. Ecco introdotto un altro elemento che darà una nuova svolta narrativa, così all’improvviso, come ogni fiaba che si rispetti. Ma come si fa ad intrattenere Edward nel circo visto che la ragazza sparisce? Ecco allora un altro giochino narrativo ai limiti dell’assurdo e perfettamente rientrante nella logica irreale della fiaba: si presta a lavorare gratis per avere in cambio ogni mese una notizia su di lei. Alla fine ne sa abbastanza, la trova, e anche il loro primo incontro è un ricamo da piccola fiaba: lui le confida il suo amore senza nemmeno conoscerla e comincia a farle la corte come nelle migliori storie d’amore da cartone animato, tra interi prati fatti di fiori da lei preferiti e scritte d’amore fatte con il carburante di un aereo o fatte trovare nei posti più inaspettati.
E il finale è tutt’altro che drammatico, perché anche se Edward è giunto alla fine dei suoi giorni, tutti i suoi amici, nonché personaggi della sua incredibile storia, sono sorridenti e felici, e anche la sua amata, che in acqua gli dà l’ultimo saluto, sorride. E questo perché, come in ogni fiaba, “tutti vissero felici e contenti”.
Big Fish: l’analisi
Edward Bloom è un instancabile cantastorie. L’unico a non voler ascoltare quelle bislacche avventure di alberi magici e paesi incantati è suo figlio William, che essendo cresciuto con la memoria di storie incredibili, una volta adulto, non riesce più a sopportare l’irrealtà di quelle situazioni ed è convinto di non aver mai vissuto un vero rapporto profondo con il padre.
Nel giorno del suo matrimonio, William discute animatamente con il padre, e se ne allontana per tre anni, fino al momento in cui la notizia del padre gravemente malato lo induce a raggiungerlo nella sua casa d’infanzia. Riscopre quindi i luoghi e i personaggi plasmati dalla fantasia, ma questa volta non è più un bambino, non si accontenta di stare ad ascoltare, vuole approfondire e scoprire cosa si nasconde realmente dietro a quelle fiabe. E’ così che scopre che tutti i personaggi protagonisti delle storie raccontate dal padre esistono davvero, i luoghi e i personaggi erano stati semplicemente alterati e deformati dalla fantasia irrefrenabile del padre. Ecco allora che la strega è una dolce ragazza delusa d’amore, il licantropo un effettivo presentatore di un circo e le gemelle siamesi attaccate per la vita, due semplici gemelle. Il messaggio è chiaro: qual è il limite che divide la realtà dalla fantasia? Quale è il discriminante? Perché dobbiamo pensare di vivere una realtà normale, triste e monotona, quando invece possiamo immaginare di aver vissuto una vita incredibile? La realtà e la fantasia possono essere intercambiabili, e non c’è niente di male in questo. Singolare che persino la guerra in Corea degli Stati Uniti negli anni ’50 venga dipinta in modo assolutamente ironico e bizzarro.
Il finale è significativo: compaiono tutti i personaggi al funerale di Edward, è il segno più evidente della piacevole e vincente mescolanza tra realtà e fantasia. E’ emozionante quando allo spettatore vengono finalmente svelati ad uno ad uno i personaggi nella loro veste reale. Fino ad allora i due piani, quello del racconto fantastico del padre e quello della sua vita reale, erano stati volontariamente intrecciati.
Tim Burton sembra voler dire di non essere come William, scettici e razionali. Le scelte narrative, linguistiche e visive fin dall’inizio del film, portano lo spettatore ad identificarsi con Edward, e non certo con William. Quest’ultimo viene dipinto come colui che forse sta sbagliando, lui stesso chiede conferme e sicurezze alla moglie, “dimmi che non sono pazzo”. E anche le due donne, la madre e la moglie di William, vengono dipinte come persone che stanno dalla parte di Edward, che ascoltano volentieri le sue storie, e sono sempre serene e sorridenti. Insomma, il messaggio è quello di non essere troppo drammatici, si può vivere un’esistenza più serena, con un po’ più di spensieratezza e azzardo. Condire la realtà con un po’ di fantasia, può solo che addolcirla.
William alla fine capisce il padre, al capezzale prima di morire, e la dimostrazione è che gli racconta la sua morte a modo suo, ovvero in modo fantastico: il figlio lo porta in braccio, come in trionfo, verso il fiume, passando davanti a tutti i suoi amici, in una sorta di parata carnevalesca (che molti hanno assimilato al finale dell’8 e mezzo felliniano). L’ultimo bacio alla sua amata, anzi, molto romanticamente e quasi commovente, l’ultima carezza con il pollice sul suo mento, e poi verso il fiume. Appoggiato candidamente sull’acqua dal figlio, Edward si trasforma nel pesce magico e sguscia via.
Sì, perché “il grande pesce” non è altro che lui stesso.
La similitudine è stata già accennata all’inizio, quando da ragazzo Edward legge i comportamenti del pesce rosso. “Il pesce rosso rimane piccolo se tenuto in una vasca piccola, ma se tenuto in un spazio più grande sarà in grado di raddoppiare e anche triplicare le sue dimensioni”. E lui è stato così, ad ogni nuova storia, il pesce Edward Bloom è aumentato di dimensioni agli occhi dei suoi interlocutori (e la presenza continua del gigante sembra quasi ribadire metaforicamente questo concetto). E Edward aumenta progressivamente di dimensioni soprattutto agli occhi del figlio, quello che aveva più dubbi su di lui, fino alla fine quando, climax del percorso formativo, viene compreso come padre. Alla fine non può che identificarsi con il grande pesce magico, ed è significativo che sia il figlio stesso che lo immagina come tale nel suo racconto. E’ il corollario del suo perdono e della sua comprensione. Il grande pesce magico infatti era per William una cosa mitica, leggendaria, e non a caso in uno dei racconti fantastici, si dice che il pesce era così leggendario perché non veniva mai catturato. Così il padre, che è diventato grande agli occhi del figlio, perché anche lui non è stato mai catturato, ma è sempre rimasto libero (di narrare) e volare sulle ali della fantasia, come lui ha sempre voluto. Significativo il momento della vasca. Edward rimane in apnea, sott’acqua, proprio come un pesce. Tra l’altro è vestito, quasi fosse un mutante, e questo appare del tutto normale, anzi la moglie entra in vasca con lui, anch’essa vestita. Viene anche regalato un bel momento di cinematografia: la soggettiva di Edward, per cui viene vista la moglie attraverso l’acqua e la visuale è disturbata dalle bollicine.
Tim Burton con questo film, tratto dal romanzo di Daniel Wallace, stupisce e commuove, cattura e lascia lo spettatore a bocca aperta, non solo per la visionarietà dei racconti, ma anche per la potenza emotiva delle scene della vita reale, nel confronto tra padre e figlio (confronto che ha tratto ispirazione dal rapporto col padre dello stesso regista). Dopo la deludente rivisitazione de Il pianeta delle scimmie l’autore californiano offre uno dei suoi più personali omaggi al cinema dei mostri, ricordando, ma solo da lontano, la visionarietà di Fellini.
Marta Fresolone
Recensione n.3
Edward Bloom ha fatto dell’arte di raccontare il colore della vita, trasformando la sua esistenza in una serie di aneddoti avventurosi e divertenti che ripete senza sosta ad amici e familiari. A tutti risulta simpatico perche’ la sua fantasia e’ contagiosa, ma il figlio, ormai trentenne, ha sempre vissuto traumaticamente il rapporto con una figura paterna cosi’ piena di estro ma incapace di reale comunicazione. Tim Burton ci immerge ancora una volta nel suo mondo incantato, smussa il lato dark a favore di un grottesco gentile e lascia che sul film gravi il peso di una morale un po’ indigesta. Non tutto fila liscio nella sua visione. La storia alterna momenti riusciti e geniali (il colpo di fulmine capace di fermare il tempo; il doppio incontro con la strega veggente; il gigante buono; la rapina in banca; la complicita’ di marito e moglie immersi nella vasca da bagno) ad altri piu’ deboli (l’atterraggio in Cina; l’arrivo nella cittadina di Spectre; il domatore nano licantropo; le gag del poeta Norther Winslow; la necessita’ di affidare spiegazioni alla voce-off). La struttura narrativa cerca di evitare la monotona alternanza di realta’ e finzione, moltiplica le soggettive del racconto e prova a spiazzare, ma il punto di arrivo e’ presto identificabile e ogni tanto il meccanismo perde fluidita’. Gli interpreti sono tutti azzeccati, a parte il protagonista Ewan McGregor che dovrebbe trasmettere un candore a meta’ strada tra “Alice nel paese delle meraviglie” e “Forrest Gump”, ma si limita ad esibire una faccia giuliva priva di autentica vitalita’. La musica di Danny Elfman (storico collaboratore di Burton) cadenza piacevolmente la magia, mentre il direttore della fotografia, Philippe Rousselot, esagera con il flou. Su tutto aleggia una certa superficialita’, con una sceneggiatura che sceglie con cura i momenti da raccontare (un po’ come l’Edward protagonista) per suffragare la sua tesi: l’unico modo per rendere la vita sopportabile e’ inventarsela. I rapporti familiari sono solo abbozzati e anch’essi piegati alla lezione da impartire, tanto che il ragionevole punto di vista del figlio viene totalmente sottomesso ad un trionfo dell’immaginazione che glissa sbrigativamente su un padre egoista e assente. Un personaggio incapace di ascoltare che se la vita reale ci appioppasse in ufficio, come compagno di scrivania, farebbe sorgere istinti omicidi piu’ che giustificati. Se puo’ essere vero che ognuno ha la vita che si racconta, Tim Burton estremizza lo sguardo e sceglie un registro fantastico per narrare episodi gia’ di per se’ straordinari (un nano domatore, due gemmelle cinesi, un uomo alto piu’ di due metri, non sono certo personaggi comuni) e perde di vista la straordinarieta’ dell’ordinario. Lo diceva anche Zeno Cosini nel romanzo di Italo Svevo “La coscienza di Zeno”: “La vita non e’ ne bella, ne brutta, ma originale”. E questa originalita’, Burton la confina alla sola iperbole onirico-fiabesca. Comunque sia, ci si trova con gli occhi lucidi a leggere i titoli di coda. Merito di una commovente e riuscita sequenza conclusiva che trasforma la morte in un rito gioioso e riconcilia con il tentativo, sincero ma forzato, dell’eclettico registadi giustificare il suo bisogno di vivere (per sempre) attraverso il suo cinema.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)
Recensione n.4
Vogliamo parlare di fantasia? Parliamone. Sarà pleonastico dirlo per chi non se l’è sentita di decollare in celestiali elogi su questo Grosso Pesce – cucinato hollywodianamente nelle salse più appetibili – ma in Big Fish di fantasia vera e propria se ne vede giusto qualche rigurgito intertestuale, se non autoreferenziale. Nulla o poco più.
Di mondo fantastico, certo, ne scorre a fiumi, saltellando da un fiaba dei fratelli Grimm all’altra, da Shakespeare a Boiardo, da Tod Browning a Fellini, e in tempi così grevi, certo un’abbuffata cinematografica di meraviglie e incantesimi (Il Signore degli Anelli in testa) non può che far bene ai nervi.
Lungi dal cadere nel facile tranello di chiedersi quanto Tim Burton vero, nuovo e di prima qualità ci sia nella sua ultima fatica, è onestamente più proficuo domandarsi quanto il film sappia discostarsi dal di per sé apprezzabile, ma un po’ scontato motto: “Viva la fantasia! Contro la sfuggevolezza della morte, la pesantezza della vita e la pedanteria del razionalismo!”.
Senza dubbio, come prima annotazione va registrata la gioia di narrare, la foga tutta boiardesca di raccontare per il semplice gusto di farlo, il piacere affabulatorio che non può non lasciare indifferenti.
La questione di fondo è però un’altra: siamo sicuri che, tra tanta materia immaginaria, le sequenze dal mondo reale di Bloom vecchio e malato fungano da semplice pretesto all’azione fiabesca, da pagina bianca divisoria tra un episodio e l’altro o – peggio ancora – da pilastro per la morale conclusiva?
In realtà, a dispetto delle tanto attese invenzioni visive, il vero punto fermo del film si è rivelato proprio in un inatteso ribaltamento dei punti di vista: ai nastri di partenza c’è quel mondo fantastico, così ordinario e familiare (perché reminiscenza di altre opere, anche burtiane), da sembrarci quasi “naturale”, che per una volta non esorcizza la morte contenendola nelle sue forme (le stesse deformazioni gotiche tipiche di Burton diventano qui puro repertorio, un catalogo di campionature), ma vive la fine (filmica, narrativa, evocativa, fanciullesca e, solo in ultima istanza, biologica) come un concetto esterno e invasivo, proveniente paradossalmente dal mondo terreno dei vivi (la malattia di Bloom).
Il progressivo farsi strada delle interferenze mondane tra una favola e l’altra, con la sensazione che il tempo per Bloom stia per scadere, aumenta la gravità di questo peso, incombente fin dall’inizio.
Il tutto con una sincerità drammatica.
Questa inversione topografica (non più la morte che deforma la realtà in fantasia, ma la morte della fantasia che giunge dalla realtà) è infatti la cifra della malinconia burtiana in Big Fish, terribilmente consapevole dell’altra faccia della medaglia. Qui Burton non si rifugia più nell’immaginazione per fuggire le cose terrene, ma fa un passo più temerario: vive nella fantasia temendo l’inevitabile e distruttivo arrivo della realtà. Anche l’estremo scatto di ribellione contro l’esistenza terrena (Bloom che diventa il grosso pesce, la morte finalmente sublimata), macchiato com’è dalla tetra presenza materiale che la segue (il funerale), si rivela con toni autobiografici in tutta la sua utopia.
E’ così che, eliminando le scorze di maniera (hollywodiana) che imprigionano il film in livelli di patetismo e didascalismo ad uso e consumo di una piatta interpretazione letterale, si scopre sotto sotto un’opera sofferta e onesta, come un Icaro post-moderno e disilluso, che assapora l’istante in cui vibra nell’aria sapendo che è prossimo allo schianto.
E’ tra le righe di questa amara illusione – non certo nella morale mangia-banalità dell’epilogo in piscina – che sta l’intensa emozione di Big Fish.
Francesco Rivelli
Recensione n.5
Gli episodi più significativi della vita incredibile di Ed Bloom (Albert Finney, Ed Bloom anziano, e Ewan McGregor, Ed Bloom giovane). Un uomo qualsiasi della provincia americana è divenuto una leggenda vivente nel suo paese grazie ai racconti che egli stesso fa della sua vita. Ma il figlio Will (Bill Crudup) non crede ai giganti, alle streghe e agli uomini lupo che Ed sostiene di aver incontrato nel corso della sua esistenza e cercherà di scoprire, al capezzale del padre, la verità sul suo conto. Tim Burton racconta la sua fiaba ad un pubblico che per due ore ritorna bambino. Il regista sceglie un racconto tutto in flash-back e riesce tuttavia ad esaltare l¹incastro narrativo, senza togliere la sorpresa e mantenendo alta la curiosità. Lo spettatore dalla poltrona del cinema ricambia («e poi?»), si diverte e quasi si dispiace, al termine del film, che papà Burton abbia finito la sua storia. Due pesi e due misure: realtà e fantasia, verità e bugia, si alternano nelle inquadrature scelte di volta in volta dal regista ed equamente divise tra ampie, fiabesche ed affascinanti carrellate (per la dimensione immaginifica) e secchi primi piani, aridi come una soap-opera (per il mondo reale). Burton dipinge ora con ironia, ora con spessore, il mito e l’anonimato, senza sbilanciarsi mai fino all¹equilibrata virata finale, dove il regista è suggestionato dalla potenza del raccontare vista come unico mezzo per conseguire l¹immortalità. Il passaggio trafantasia e razionalità (il bambino che diventa uomo) è fine e graduale. Peccato che a tratti si rischi il «Forrest Gump», il tocco emozionante alla Fellini, tanto sbandierato dalla critica, non si capisce proprio dove sia. Bella la fotografia, che in altri film del regista è però nettamente superiore. Lo spunto del film, tratto da un romanzo di Daniel Wallace, è la classica «panzana da pescatore» («ho preso un pesce grosso così»).
Christian Galimberti
Recensione n.6
Lodi, lodi, lodi.
A momenti ti sembra di assistere ad un film dei fratelli Cohen, come quando vedi certe comparse di lusso tipo Danny De Vito e Steve Buscemi e ti chiedi se esiste veramente un gigante di simili proporzioni e se le cino-soubrette sono veramente gemelle siamesi. Chi ha apprezzato Il mistero di Sleepy Hollow, non resterá deluso dal nuovo film di Tim Burton e riconoscerá la stessa sinistra foresta con nebbiolina e alberi insidiosissimi e gli stessi volti ‘gotici’ delle eroine femminili. Consiglio vivamente questo film ricco di idee fantasiose e geniali, comico e commovente pur trattando temi seri. Per certi versi simile alle Invasioni Barbariche (un padre anziano che sta per morire, incomprensione padre-figlio, il tirare le somme di una vita,…), qui ho trovato un film riuscito meglio rispetto al fresco vincitore di Oscar, che vola piú alto (felliniano?) e decisamente piú coinvolgente. Miglior film dell’anno 2004 (per ora), in attesa di KillBill vol.2, come KillBill vol.1 lo è stato per il 2003.
Per inciso, aspettate tutti i titoli i coda: in fondo, canzone inedita (almeno credo) e molto bella di Eddy Wedder e i suoi Pearl Jam.
Jean Bodò
Recensione n.7
Dopo tre film brutti e/o insulsi Tim Burton ritorna con un film che, se non del tutto riuscito, è almeno interessante. E’ quel genere di film che lascia un po’ perplessi in quanto non si conforma ad alcun genere noto e ci impedisce di prevedere cosa debba o possa accadere. In più, certi tempi morti e una bizzarra cronologia (e, in parte, scelta di attori: non che non siano bravi ma si fa una certa fatica a considerarli padri e madri e figli l’uno dell’altro) fanno sì che Big Fish non crei un genere nuovo, non è un film abbastanza forte. Ma grazie ad una messinscena impeccabile e ad un gran numero di belle idee e gag (piaciuta molto quella su cosa succede quando il tempo si ferma) il film si lascia vedere con piacere e divertimento. Basta che accettiamo il film nei suoi termini e, certo, potremmo anche non farlo. La superiorità della leggenda, della favola, della menzogna sulla nuda verità dei fatti può anche non essere un concetto che piaccia a tutti. Vediamo pochissima realtà, anche se ci viene detto e possiamo sospettare che sia squallidissima e che renda perciò indispensabile il mentire a Ed Bloom. Anche il Sud iperidealizzato è platealmente e consapevolmente falso: un dottore nero che fa nascere un bambino bianco in ospedale nell’Alabama degli anni 40? I-m-p-o-s-s-i-b-i-l-e!!!!! E a quale guerra partecipa? Cronologicamente dovrebbe essere il Vietnam ma ovviamente è la Corea (grande il ventriloquo cinese). Ma nella prospettiva favolistica scelta il film funziona per buona parte del tempo. Da dire che, dopo un brutto periodo, il nuovo Tim Burton pare diventato buono. La weirdness tipica dei suoi film migliori, sempre in bilico fra la bontà e la malvagità, qui pende decisamente sul buono:non c’è un cattivo serio. Buona cosa? Non sono sicurissimo. Certo non sono pregiudizialmente ostile alla bontà (il cattivismo ha rotto sul serio). Vedremo il prossimo: se c’è un nuovo equilibrio o si crolla nella melassa.
Stefano Trucco
Recensione n.8
“Tim Burton, il ritorno”. Cercando di cancellare dalla mia mente il ricordo spiacevole di quello che, per me, resta il film più deludente di uno dei miei registi preferiti (l’inutile, goffo, superfluo e nient’affatto personale remake del bellissimo “Il pianeta delle scimmie”), mi sono recato nella solita multisala-frezeer (c’era più caldo fuori all’aperto che dentro, ancora un grazie all’Uci) pieno di aspettative. Aspettative che sono state ampiamente ripagate da un film pieno di magia, fantasia ecc. ecc. Perchè “ecc. ecc.”? Semplicemente perché è del tutto inutile che stia qui a dilungarmi ripetendo cose dette e stradette da altri sulla poetica del cinema “burtoniano”, che qui è pure “felliniano”, ecc. ecc.: insomma, un film deve essere visto, vissuto, amato o odiato e non serve a nulla leggere ciò un altro ha recepito dalla sua visione. L’inutilità della critica. Quello che posso fare, non essendo un critico e tantomeno un saggista di cinema, è solo di CONSIGLIARVI di andarlo a vedere. Tutto qua? Sì. Il resto spetta a voi.
DA TENERE: Strano a dirsi, ma qesto film lo avrebbe dovuto dirigere Spielberg (la storia è tratta da un libro); pur amando anche il suo cinema non credo che sarebbe stata la stessa cosa. C’è più Tim Burton qui che in molti altri suoi film. Non travisatemi: mi piace quando un autore rischia cercando di cambiare o di rinnovarsi, sempre però che non perda per strada il proprio cuore; e questo è ciò che fece il regista di questa pellicola nel suo precedente lavoro. Quindi cos’è che tengo? Il ritorno di Tim Burton, mi pare ovvio!
DA BUTTARE: Naturale che un film infarcito di flashback possa sembrare un po’ discontinuo e disomogeneo, ma è qualcosa che si può benissimo perdonare.
NOTA DI MERITO: Oltre al grandissimo cast (ma quando mai in un film di Burton gli attori non danno il meglio di sè?) anche l’aver disseminato per tutti i 125 minuti di durata citazioni ed autocitazioni filmiche e non solo; per i “seguaci” del regista… buon divertimento!
NOTA DI DEMERITO: E c’è da dirlo? All’Uci perché, pur essendo una multisala recentissima, non è in grado di assicurare ai propri clienti l’adeguato servizio regolarmente pagato (e poi qualcuno critica ancora chi si ferma dentro a guardarsi un altro film in un’altra sala? Chiamasi “risarcimento”) e al resto dei cinema di Verona: possibile che solo due multisale come l’Uci ed il Warner Village abbiano questo gioiello di pellicola in programmazione?
Ben, aspirante Big Fish
Recensione n.9
Pare che il critico letterario del New York Times, A.O. Scott, abbia accusato il film di Burton di aver compiuto un’insopportabile semplificazione dell’omonimo testo di Daniel Wallace da cui è tratto il film, nonostante la bonaria ammissione dello stesso Wallace circa la irrisolvibile diversità dei due campi espressivi del cinema e della letteratura che fa sicuramente fede dell’importante cachet che deve aver incassato con la cessione dei diritti sulla storia; ma in realtà le difformità in questo prodotto cinematografico sono numerose e vivide come le stesse avventure fantastiche di Ed Bloom e segnano l’esperienza del regista come una rinascita comica e grottesca in cui l’autore si ritrova a scivolare lungo il corridoio dei solari uffici del mercato cinematografico ancora madido e tranquillamente avvolto nel sogno amniotico della sua umanità dolce e crudele, proiettata con il suo comune bagaglio tragico in un universo invece favolistico, sedotta dalla dolcezza perversa della quotidiana mostruosità.
Giganti, lupi mannari o gemelle siamesi, (se nella sindrome rientra il fenomeno di due tronchi su un unico bellissimo paio di gambe), non permettono più all’autore di compiere il rovescio del favolismo dei fratelli Grimm, (che come letteratura pedagogica si impegnava a fare della favola, della magia onirica dell’onnipotenza umana, il campo dell’allegoria della frustrazione tragica di un’esistenza paurosamente lanciata verso la sua eclatante e dolorosa fine), e tendono piuttosto a coniugarsi in un repertorio iconografico che costituisce la materia figurativa dell’autore nella sua essenziale natura stilematica, finendo però per suggerire l’intera composizione come frutto di uno stanco manierismo stilistico dominabile anche da un anonimo epigono di Burton.
Infatti le città, gli edifici, che lo scenografo Dennis Garner ha dovuto instancabilmente cercare lungo tutti gli Stati Uniti prima di scegliere di girare il film in Alabama, usando la cittadina di Wetumpka per rappresentare Ashton oppure per ricostruire il villaggio di Spectre, sono gli stessi che il regista immagina da prima di “Edward Mani di Forbice” e che forse proprio qui smettono di rappresentare tutto la detestabile uniformità della società americana per assumere contorni realmente rassicuranti e pacifici: infondo Ed è un vincitore stralunato che colleziona incontri con la diversità ma che definisce la propria sempre superomisticamente.
Così ad un citazionismo debolmente interno, fatto di iconografie e brevi allusioni, sembra aggiungersene un altro più imbarazzante a causa della sua completa incomprensione: ci si riferisce ad un presunto fellinismo nominalisticamente rintracciabile tra eventi circensi e finali ricompilativi dell’esperienza fantastica continuamente accennati e subito traditi in una rincorsa della realtà alla fantasia che segna tutto il film ma minacciandone continuamente la più goffa delle cadute.
E’ infatti la marcata caratterizzazione dei momenti realistici ed immaginifici a confondere la necessità espressiva delle scelte registiche con il riferimento ad una codicalità immediata come quella televisiva, ed in particolare connotata territorialmente fin nei trattamenti della fotografia, perché, nonostante le rassicurazioni del direttore della fotografia sugli attributi magico-misteriosi degli ambienti domestici del vecchio Ed, sembra sempre di vedere nella semplice articolazione di quadri sempre prossimi al primo piano o nelle tonalità calde dei colori gli attributi di un filmato promozionale di qualche istituto di credito, e lo stesso valga per i contorni vaporizzati dal flou delle sequenze oniriche che pure vantano un’articolazione ancora linguistica.
Ma non si può neanche accogliere interamente il pregiudizio per il quale sarebbe naturale l’incontro con il seme più sincero del talento del regista proprio nelle sequenze fantastiche, perché queste stesse balbettano le sillabe di un idioletto familiare allo spettatore più accorto ma disperse in guizzi che ripetono la sequenza iniziale con la comparsa dell’enorme e imprendibile pesce dello stagno e l’immediato tradimento della sua natura a causa della sua stessa troppo evidente apparizione, che sembra evocare piuttosto il triste e meraviglioso realismo del “Pinocchio” di Comencini; ciò nonostante si tratta di un palpitare muto che non viene mimato o corrisposto da nessuna musica originale di grande forza, come un abbandono semplice alla casualità delle programmazioni radiofoniche.
Infatti le canzoni di Elvis Presley, Pearl Jam, Bing Crosby e gli Alman Bros. ricoprono la musica di Danny Elfman senza linearità temporale o necessità tonale mostrandosi quasi come scelte velleitarie, popolari, belle canzoni, sui cui testi si può anche appoggiare il racconto ma come se fosse narrato in un tinello di Miami Beach da un vecchio regista televisivo in pensione; le scelte musicali non riescono infatti, similmente a quanto accadeva per la colonna ottica, a palesare una necessità compositiva coerente al testo filmico, sono invece solo accennati ritornelli o composizioni di indifferente postmodernità senza controllarne realmente le implicazioni narrative come pure le dimensioni tonali delle scene sono parzialmente evase: gli spunti sono tali da dilaniare il tessuto narrativo in una schizofrenia tanto rapida da non lasciarsi apprezzare nella sua forma e generando quell’invito alla spettatorialità disattenta degli spettacoli catodici.
I motivi precipitosi o i cicli tematici di cui parlava Deleuze per la composizione dell’immagine-movimento sono negati seppur nella regolare ripetizione della “grande forma” cinematografica del precipitare delle azioni sulle situazioni con lo strepito sordo del gesto che cambia il mondo, infatti l’immagine-tempo resta una presenza lontana ed implicita che non riesce a rispecchiarsi nelle fasi memorative e fantastiche dell’anziano genitore perché tutto è presente ma senza esserlo onestamente mentre le allusioni alle meccaniche simmetriche e cicliche delle fantasie di Ed restano allusioni verbali, dichiarazioni di intenti tralasciate nella ripresa.
Mentre l’ideologia della famiglia americana si affaccia nel cinema di Burton come solare falsificazione e non più come poetica onestà della falsificazione, mentre i mostri sono sogni necessari ad un vecchio per dar senso ad una vita dissipata nell’incertezza lavorativa liberista, allora si affaccia anche la speranza che sia un compromesso passeggero, dovuto alla stanchezza o alla responsabilità di una paternità incipiente, e che presto si possano riaffacciare comici e spauriti bambini con i chiodi negli occhi che piantano alberi di alluminio che crescono storti a causa della loro cecità, così come il regista aveva già raccontato per esprimere una compassione per la schiuma dell’umanità che in questo film è traboccata interamente fuori del vaso, forse rinchiusa in qualche centro di accoglienza.
Ruggero Lancia
SPECIALE TIM BURTON – DI SIMONE SPOLADORI
di Simone Spoladori
La cittadina di Burbank, in California, a cavallo tra i ’50 e i ’60 appare come l’esempio più cristallino della provincia americana degli “anni d’oro”, quella, per intenderci, immortalata in serial come Happy Days o in film come Peggy Sue si è sposata e American Graffiti: l’innocenza, la spensieratezza, la leggerezza…e l’ipocrisia. Wasp è la parola chiave: il mondo asettico degli white anglo-saxon protestants si rispecchia nei giardinetti inglesi ben tenuti, nelle siepi curate e precise, nella cultura medio-borghese delle signore di mezza età, nell’occultamento di ogni tipo di minoranza, nel pregiudizio verso la diversità.
Wasp contro Weird. A Burbank, sede legale di molti studios americani, nasce nel 1958 Timothy William Burton, che diventerà, parecchi anni dopo, l’autore, nel cinema americano, che più di ogni altro riproporrà, con ossessività quasi patologica, le stesse tematiche, gravitanti proprio intorno al concetto di diversità: il weird-director, stravagante, per definizione.
L’adolescenza del giovane Tim è la fucina della sua poetica. Il rifiuto, il rigetto del mondo circostante lo indirizzano verso il cinema di Roger Corman, verso lo sci-fi ’50-’60; i cartoons che ne segnano l’immaginario non sono i classici e candidi Disney (con la quale collaborerà), ma i “monellissimi” Looney Tunes e quelli del dr. Seuss, il “papà” del Grinch, che “ruba” il Natale ai bambini, quasi come Jack Skeleton anni dopo.
Rovesciamo la prospettiva. Dall’oggi, dai cancelli della Fabbrica di cioccolato, riesaminando il cinema di Burton, vediamo proprio quei “mostri”, quei “diversi”, popolare il suo cinema, portati alla luce dal confronto con un mondo esasperatamente tratteggiato con un iperrealismo iperbolico, spesso dal valore paradigmatico.
Beetljuice, Edward, Batman, Ed Wood sono tutti diversi, mostruosi, grottescamente, fisicamente o moralmente abnormi, protagonisti di un cinema “di personaggi”, uno per film. Non è un caso se fino a Mars Atccks, i titoli dei film di Burton rimandino al nome del personaggio chiave, quello su cui poggia il film. La diversità burtoniana è il comune denominatore del suo cinema, ma non appare come un concetto monolitico e statico, bensì è un oggetto multiforme e sfaccettato. E’ la non integrazione con la società, è il rifiuto della famiglia, è l’elogio oltranzistico della componente ludica dell’infanzia.
Una posizione radicalmente critica della società americana che è al tempo stesso sorprendentemente schizofrenica: una critica schizofrenica della schizofrenia. E’ questo il piano che emerge da Mars Attacks, il valico, la svolta del cinema di Burton. Il cinema “di personaggi” esplode in una coralità faunistica che porta ad un corto circuito narrativo, a sua volta espressivo: la frammentazione del racconto diventa il simbolo, appunto, della schizofrenia americana.
La doppia identità del cinema burtoniano si rivela anche nella sua natura “cormaniana” di cinema d’autore e commerciale allo stesso tempo. Corman, ben più off di Burton, era l’alfiere della poetica del ri-uso, precursore di ogni post-modernità, ma allo stesso tempo era cineasta “commerciale”, negli scopi più concreti del suo essere “metteur en scene”. Il legame iconico più evidente con Corman è, naturalmente, Vincent Price, attore feticcio, che incarna il ri-uso che Burton fa del “ri-utilizzato” di Corman. I suoi b-movie low budget degli anni’50 e ’60 si servono proprio di materiali profilmici già utilizzati, che ridisegnano diegesi diverse a basso costo. Burton fa la stesa operazione con i simboli e i concetti. Batman, nelle sue mani, diventa un simbolo pop, intessuto di riferimenti a Warhol, a Pollock, a Rosenqvist. Con Batman Burton riutilizza e ribalta la logica promozionale, usando l’uomo pipistrello come un barattolo di zuppa, o come il volto di Marylin. E’ ironia, ma è anche propaganda rovesciata, e propaganda di sé. E’ simbolo di poetica, ma è anche strumento per un ribaltamento tutto interno della logica di mercato, in un sistema di scatole cinesi dove tutto è pop, ribaltato, utilizzato e ri-utilizzato.
In questo sistema citazionale, è emblematica caratteristica la facilità nel decifrarne la referenzialità. Questo perché le citazioni non sono semplici omaggi, ma le cellule vitali del tessuto poetico di Burton.
BIOGRAFIA
Timothy William Burton nasce a Burbank, in California, il 25 agosto 1958. Il padre è un ex giocatore di baseball, la madre gestisce un negozio di articoli da regalo.
L’impatto con la scuola non è dei migliori: Tim è uno studente mediocre, che trova maggior piacere in attività come il disegno, la pittura e il cinema. In particolare ama fin da giovanissimo i film di “mostri”: i giapponesi Godzilla, gli horror della Hammer di Terence Fisher, i film di Roger Corman con Vincent Price.
Nel 1976, dopo aver terminato gli studi superiori, frequenta Il California Institute of Arts, l’officina in cui si formano i nuovi animatori della Disney. Nel 1979 entra a far parte proprio del team Disney e partecipa alla realizzazione tecnica del lungometraggio Red e Tobi nemiciamici. La Disney comprende però come il talento di Burton sia sprecato in uno spazio d’azione così ridotto, e gli affida un ruolo di maggiore importanza (“concpetual designer”) nel film Taran e la pentola magica, ma i suoi bozzetti non risultano consoni alla stile disneyano, e vengono scartati.
Nel frattempo Burton lavora ai suoi primi progetti autonomi, il corto d’animazione in stop motion Vincent e il mediometraggio Frankenweenie. Il primo, un folgorante e delirante racconto autobiografico, che parla di un ragazzino che “voleva essere Vincent Price”, costituisce la prima occasione per il regista californiano di lavorare proprio con l’attore feticcio protagonista de Il Pozzo e il Pendolo.
Il secondo viene distribuito in vhs, e consente a Burton, per la prima volta, una discreta diffusione, attirando l’attenzione di Stephen King, che lo segnala alla Warner per la direzione di Pee-Wee’s Big adventure, il primo lungometraggio del genio di Burbank, che ottiene un successo insperato.
Burton a questo punto si gestisce nel migliore dei modi. Rimane “in silenzio” per tre anni, continuando a lavorare nell’oscurità con la Disney. Nel 1988 gli viene offerto il soggetto di Beetlejuice, sempre targato Warner, che diviene un altro successo straordinario.
A questo punto la svolta: la Warner ha compreso a pieno le potenzialità di Burton, e decide di affidargli la trasposizione cinematografica di Batman, film evento in cantiere da diversi anni. La lavorazione di Batman è costellata di misteri e di polemiche, che riguardano soprattutto la scelta di affidare i panni del Cavaliere Oscuro a Micheal Keaton, un attore comico ritenuto privo del phisique du role. Il film si rivelerà poi un successo di pubblico senza precedenti, ben accolto dalla critica, e accompagnato da una macchina di merchandising imponente, e assolutamente segnato dal marchio autoriale di Tim Burton.
A questo punto il regista decide di utilizzare il peso produttivo acquisito per realizzare un progetto molto personale e sentito. Edward mani di forbice, straordinaria fiaba dark, su cui per la prima volta egli esercita pieno e totale controllo, ottiene un grande successo di critica e pubblico, e segna il passaggio definitivo di Burton al rango di autore.
Il 1992 é l’anno di Batman – Il Ritorno, sequel superiore al predecessore, che ottiene però meno successo di pubblico, penalizzato da un’impostazione nettamente più cupa e adult oriented. Per questo motivo la saga viene affidata, dal terzo episodio, al più modesto Joel Schumacher.
Nel 1993 Burton corona il proprio sogno di vedere realizzato un progetto cui lavorava dall’inizio degli anni ’80, un lungometraggio in stop motion, dal titolo Nightmare before Christmas. Il rifiuto della Disney porta alla rottura definitiva con la major californiana, e all’acquisizione del film da parte della Warner.
Con il successivo Ed Wood, del 1994, omaggio al “peggior regista di tutti i tempi”, e all’epoca degli amati b-movie sci-fi degli anni ’50, Burton viene notato dall’Academy Awards, e il film riceve due oscar.
La fantascienza di serie B rimane al centro dell’ispirazione burtoniana nel successivo Mars Attacks!, film che evidenzia l’indipendenza del regista dall’estabilishment, sviluppandosi come un violento e acido attacco ad alcuni superficiali valori mediatici della società americana, con un cast all star.
Il nuovo progetto arriverà tre anni dopo, e sarà il primo horror girato da Burton, Il mistero di Sleepy Hollow. In questi tre anni Burton lavora ad un soggetto per un nuovo film di Superman, che vedrebbe Nicolas Cage nei panni un tempo rivestiti da Christopher Reeve. Il prgetto viene abbandonato dopo un anno di lavoro.
Nel 2001 arriva però il primo remake del regista americano, Il pianeta delle scimmie, girato dopo una travagliata gestazione che influisce sul risultato finale, per certi versi deludente, pur in un contesto visivamente straordinario.
Anche la vita privata di Burton si complica in questo particolare momento: si rompe il matrimonio con Lisa Marie, mentre entrambi i suoi genitori muoiono in un breve spazio di tempo. A breve però il regista inizia una relazione con l’attrice Elena Bonhamn Carter, protagonista proprio del Pianeta delle scimmie.
Nel 2003 esce il nuovo film di Burton, Big Fish, da un romanzo di Daniel Wallace, che tocca, a dispetto della natura di adattamento, numerose tematiche chiave della poetica burtoniana. Il film riporta in alto le quotazioni del regista californiano, grazie ad un pressoché unanime successo di critica.
Il successo di Big Fish sollecita Burton a mettersi al lavoro. Quest’anno, il 2005, vede ben due lungometraggi pronti all’uscita. La fabbrica di cioccolato, adattamento del celebre romanzo di Roald Dahl, e La sposa cadavere, secondo, straordinario e attesissimo lungometraggio in stop motion.
FILMOGRAFIA
2005 – La sposa cadavere (The corpse bride)
2005 – La fabbrica di cioccolato (Charlie and the chocolate factory)
2003 – Big Fish (id.)
2001 – Il pianeta delle scimmie (Placet of the Apes)
2000 – Stainboy (The world of stainboy) (TV)
1999 – Il mistero di Sleepy Hollow (Sleepy Hollow)
1996 – Mars Attacks! (id.)
1994 – Ed Wood (id.)
1992 – Batman, il ritorno (Batman returns)
1990 – Edward mani di forbice (Edward scissorhands)
1989 – Batman (id.)
1988 – Beetlejuice, spiritello porcello (Beetle Juice)
1985 – The Jar (Episodio della serie Alfred Hitchcock presenta) (TV)
1985 – Pee Wee’s Big Adventure
1984 – Frankenweenie
1982 – Aladdin and his wonderful lamp (episodio della serie tv Ferie Tale Theatre) (TV)
1982 – Hansel and Gretel (TV)
1982 – Luau (TV)
1982 – Vincent
1979 – Stalk of the Celery Monster
1971 – The island of Doctor Agor