Recensione n.1

Manoel de Oliveira e’ un maestro della cinematografia portoghese e basta ascoltarlo in un’intervista per capire di essere davanti ad una persona di somma cultura e profonda intelligenza. Alla veneranda eta’ di novantacinque anni non manca un festival, con film non sempre entusiasmanti ma spesso illuminanti. “Um filme falado” e’ pero’, davvero, di rara bruttezza (e si vocifera sia stato escluso dal Festival di Cannes). Tutta la prima parte prevede lezioni di storia impartite da una giovane insegnante (la sempre luminosa e gelida Leonor Silveira, attrice feticcio del regista), alla figlioletta. Le capitali si susseguono identiche: stessa inquadratura della prua della nave, sbarco, cartolina del monumento piu’ famoso, dissertazione accademica (a volte con ospiti), “cos’e’ questo”, “cos’e’ quello”, pronunciati dalla saputella bambina, imbarco di un nuovo personaggio. Nella seconda parte il capitano della nave (un John Malkovich piu’ viscido che mai) invita le tre “colte” e importanti personalita’ salite a bordo a cenare con lui. Si crea quindi una tavolata con Catherine Deneuve, donna d’affari francese, Stefania Sandrelli, ex-modella italiana e Irene Papas cantante greca. Ognuna si esprime nella sua lingua natale e dissertano sui massimi sistemi capendosi a meraviglia. Grandi banalita’ vengono spacciate per pillole di saggezza (“Le donne dovrebbero governare il mondo”, “fra Oriente e Occidente mancano valori di convergenza”) e lo spirito didattico finisce per prevaricare sui personaggi, ridotti ad anonime marionette spara-nozioni. Le lunghe sequenze dialogate sono quanto di piu’ falso sia dato vedere al cinema: Irene Papas e’ forse la piu’ spumeggiante, la Deneuve appare spaesata e la Sandrelli e’ semplicemente imbarazzante. Il finale potrebbe dare un senso al tutto ma e’ inficiato da un’inquadratura conclusiva che scade nel trash: l’espressione attonita di Malkovich che accompagna tutti i titoli di coda e che potrebbe assicurarsi la primissima posizione nella “Yeeeuuuch! Parade”.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.2

La staticità protratta e ammaliante di un porto, nella sua intensità fotografica immersa nella nebbia, apre la lunga e biancastra escursione attraverso il mediterraneo. Manoel de Oliveira inquadra fissamente gli spigoli di una grossa nave, ripresa nella sua interezza e poi consegnata all’immagine di una prua che sterza l’oceano. Un’unica iterazione muta, ed eloquente, nell’incedere del film parlato. La giovane insegnante è la portavoce di notizie sul mondo antico, una figura delicata e asettica, la voce secca che riempie lo schermo più del volto, quasi mai aggredito da primi piani superflui. L’immobilità dei paesaggi in campo lungo, della grazia soleggiata delle Piramidi, degli scavi pompeiani, dell’ Acropoli,si fonde dolcemente al flusso raccontato di una storia puntuale eppure fascinosa per la bambina bionda e incuriosita, una vocina educata e crepata dai naturali “perché” dell’età, trattenuti e corrosivi insieme.
Quell’amorevolezza inusuale tra una figlia innamorata dei particolari, dei cani stranieri, delle strade mai viste, e una madre piacevolmente calata nel ruolo eterno di guida, spezza l’algida corazza dell’attrice Leonor Silveira, che muta pelle e suoni nel comunicare con un vecchio pescatore marsigliese, un prete ortodosso, perfino nel portoghese ritrovato nell’incontro con un connazionale, un maturo attore teatrale in Egitto.
Mentre l’angolo affilato della nave sferza le acque e l’unità degli episodi, tre donne salgono a bordo, tutte imponenti eppure fluttuanti nell’irrealtà storicizzata della loro aura. Sono, non a caso, tre donne famose, interpretate da altrettante icone viventi, diversissime e in connubio, ben presto, nell’accogliente sala ristorante. Una manager francese sarcastica e finemente sprezzante, lucente del suo conquistato anticonformismo, una fragile e burrosa ex- modella italiana in rosso, una cordiale e agguerrita cantante e attrice greca, la cui brillantezza risalta nelle emblematiche vesti nere, nella profonda oscurità delle origini della civiltà pre-occidentale che rappresenta. Al tavolo le tre celebrità siederanno al fianco di un altro essere fragilizzato e potentemente ieratico, un candido, antico e elegantissimo Capitano interpretato con suadente raffinatezza da John Malkovich, i cui tratti rinunciano alla virilità perversa e inquietante di altri personaggi per farsi maschera umanizzata, centro rotante di un insolito convivio.Discorrendo del più e del meno i quattro personaggi scopriranno solo dopo un po’ di tempo, con entusiastica naturalezza, di aver parlato per tutto quel tempo la loro lingua originaria, permettendo allo spettatore stupito di gustare una frastornante festa di sonorità lontane e simili, l’inglese cadenzato, il francese sfuggente, l’Italiano stranito e timoroso di aperture, il greco vibrante mistero della cantante.
I dialoghi si inseguono, si relativizzano e si aprono durante una lunga e strana scena, tra formalità, ingenuità, approcci, confessioni ed esperienza.Quando però la giovane donna viene invitata al tavolo accentratore di gioie e ironie, il Capitano percepisce imbarazzato che il suo portoghese non può integrarsi nella compagnia come forse egli stesso, conscio del nuovo potere riconosciuto della “gente colta” di non rinunciare a sè e al proprio idioma per parlare con gli altri, avrebbe desiderato.La madre e la bambina vengono accolte con sorrisi e apertura dalle tre donne, ma già si avverte un’incrinatura nei discorsi; le allusioni ai conflitti internazionali della precedente conversazione si materializzano nelle avversità ineluttabili tra i popoli, ancora scherzosamente avanzate dalle tre signore, in particolare dalla cantante, che denuncia la scomparsa del greco, inspiegabile, l’autoritarietà dell’inglese e la strana diffusione del portoghese nel sud del mondo. Ricompaiono i fossati, le evocazioni di antiche colonizzazioni, i calchi di sangue attorno a cui ruotano le ampollose e tonanti voci, atterrite inconsapevolmente. All’esecuzione neniosa, cullante di un antico canto popolare ellenico, che la donna esegue per gentile richiesta della giovane “ospite”, si sovrappongono i primi, screziati presagi insinuate nella bellezza arcaica, monolitica, imperfetta del brano.
La sala si incupisce e ben presto il canto è smorzato violentemente da un annuncio inaspettato. Tutti i passeggeri devono lasciare la nave a causa di un ordigno collocato a bordo nell’ultima tappa, un fantasma incappucciato e gravoso su quella promessa appassionata di interazioni, di unione e ritrovamento che la neonata comunità della nave sembrava aver formulato.
L’isolamento barbarico e predestinato della madre e della figlia, l’affanno di una corsa impossibilitata si incarna nella bella bambola araba che il capitano ha donato alla bambina. Le scaglie lucenti dei suoi veli, del suo amato volto coperto si riverberano come un ricordo nell’inquadratura finale, nella fissità agghiacciata del volto dell’uomo illuminato da un bagliore sinistro, che penetra la sua bocca aperta e impotente. De Oliveira sceglie forse quel fotogramma spezzato, nel suo non evolversi, mentre la colonna sonora di semplici scrosci e scoppiettii lo incornicia impietosamente, come un paradosso. Lo sceglie per fermare il fantastico, fumoso sogno che quell’avventura straordinaria aveva generato, protetto dall’anello di un mare enorme, dal tepore di una cabina tratta con forza fuori dal tempo e dallo spazio terreno. Amalgamare le intimità delle coscienze, il loro essere nazionali, mondiali e uniche è reso impossibile dalla terra stessa, dal sangue reale degli uomini che disconoscono i sogni, o si affrettano a frantumarli guidati dall’entità irresistibile di una forza esplosiva. Chiara F

Rosa Maria (Leonor Silveira), una giovane professoressa di storia dell’arte dell’università di Lisbona, parte per una crociera nel Mediterraneo con la figlia (Filipa De Almeida), per poi raggiungere il marito, pilota d’aereo, a Bombay.
Nelle diverse tappe Rosa Maria visita i posti di cui parla tanto a lezione e ne ripercorre la storia, mostrando così alla figlia ciò che ha determinato le civilizzazioni mediterranee.
Nel corso della crociera salgono sulla nave anche Delfin (Catherine Deneuve), donna d’affari francese, Francesca (Stefania Sandrelli), ex-famosa modella italiana e Helena (Irene Papas), attrice e cantante greca. Il capitano della nave John Walesa (John Malkovich) è invece americano di origine polacca.
I quattro sono amici di vecchia data e la crociera è un’occasione per rivedersi, infatti cenano insieme e una sera, mentre la nave si trova nei pressi del Golfo Persico, invitano anche Rosa Maria e sua figlia, tutto viene interrotto da una strana minaccia.
Con una storia di questo tipo, De Oliveira passa attraverso il tempo e le epoche storiche per poi arrivare al centrale dialogo in quattro lingue diverse. Sembra che i primi tre quarti del film siano solo una scusa per approdare a questo dialogo, nel quale si affrontano appunto importanti tematiche sulla differenza delle culture, ma in cui entra in gioco anche l’apprendimento e la comprensione dell’altro.
Se non fosse di Manoel de Oliveira, Un film Parlato sembrerebbe un esercizio di stile, ma per lui non valgono le regole abituali, come scrive Tullio Kezich[1]: “se qualsiasi altro cineasta avesse fatto un film come questo, gli contesteremmo difetti plurimi, ingenuità e magari un po’ di noia”, ma il maestro si esprime in tutta libertà e non preoccupandosi della forma, cura molto il contenuto, sorprendendoci comunque con un finale inaspettato.

Giudichan (Giuditta Martucci)

[1] «Corriere della Sera», 1 Settembre 2003