Durata: 89 min. (colore) Paese: Italia
Regia: Francesca Comencini
Sceneggiatura: Francesca Comencini Assunta Cestaro Daniele Ranieri
Soggetto: Francesca Comencini Assunta Cestaro Daniele Ranieri
Montaggio: Massimo Fiocchi Fotografia: Luca Bigazzi

Recensione n.1

La Comencini sviluppa il suo film-documentario a partire dagli spunti, dalle immagini, dalle sonorità mutuate da un nuovo vocabolo entrato con prepotente inevitabilità nel nostro dizionario: mobbing, dall’inglese To Mob, assalire . Lo fa attraverso una storia che stupisce per la sua evidenza, la vicenda fortemente personalizzata eppure diffusa, visibile, di una donna sola, con una bambina decenne, che subisce gradualmente, al lavoro, un processo di discriminazione e reclusione. Un’azienda privata, una come tante, nè peggiore, nè migliore. Anna, che vive nelle fattezze sommesse e stralunate di Nicoletta Braschi, forse l’unica attrice professionista del film, svolge un incarico aderente alle sue competenze: passa ore ed ore alla sua scrivania, ad archiviare pratiche, ad occuparsi di vendite nell’ufficio disordinato. Stremata, torna ogni giorno a casa da sua figlia, una bambina precocemente responsabilizzata, aggraziata nei modi ma dotata di uno spirito di osservazione profondo e quasi crudele. Morgana si accorge presto, forse anche prima di sua madre stessa, che qualcosa sta cambiando. La regista ci accompagna attraverso le passeggiate nei corridoi monocromo, enormi, oppure obliqui, schiaccianti indizi di una sorta di thrilling in ambiente professionale. I volti dei colleghi, scuriti, sorridenti, sfocati verso il fondo straniscono Anna, che invece è una macchia biancastra e fluttuante, persa nei suoi fogli, nella sua serietà incurante delle allusioni delle colleghe fintamente ingenue. Anna, da un giorno all’altro, viene convocata dal suo dirigente per l’assegnazione di compiti insensati, mai svolti prima. L’uomo ha un aspetto deformato dalla frontalità delle inquadrature, dagli occhi inizialmente stupiti della dipendente, dall’accento violentemente burocratico delle sue parole. Una pratica importante è stata sottratta alla lavoratrice, e, come il “capo” dice, non è stato un caso. Anna verrà spostata alla ricerca in archivio, privata dell’ufficio caotico e già poco luminoso, privata dello strumento necessario al suo lavoro, il computer.
Nelle panoramiche parziali l’ambiente aziendale è esplorato sotto una luce straniante, i colleghi sembrano ostacoli accerchianti, bocche e sguardi dissociati che emettono parole neganti, a doppio fondo. La recitazione di coprotagonisti e comparse, oltre che della stessa Braschi, esprime perfettamente all’impossibilità di trovare una soluzione. Di fronte alla lettera di dimissione presentatagli da un clone ripulito dell’altro dirigente, la donna fugge indignata. E contatta un’associazione che, all’inizio della sua parabola discendente aveva tenuto un incontro nell’azienda proprio per esplicare i problemi del mobbing, della volontà spesso immotivata razionalmente di “eliminare” un dipendente in modo trasversale, ponendolo di fronte a una costante degradazione del proprio operato, della propria personalità, della propria persona fisica, e spingendolo al licenziamento o all’autoesclusione. Capiamo da poche battute che Anna intenta una causa, e riesce a vincerla. Resta la curiosità, insoddisfatta dal film, di sapere come questa causa sia stata orchestrata, sofferta, superata. E resta la consapevolezza, per molti fastidiosa, esasperante all’uscita dalla sala(e quindi difficileda ammettere), di un’assoluta verità e capillarità del problema. Sarebbe inutile soffermarsi sulle accuse di disumana e scoraggiante meccanizzazione e smembramento dell’essere umano-lavoratore, scoperta già da secoli; colpisce piuttosto come questi fenomeni penalizzino, paradossalmente, l’eccesso di professionalità, spesso addirittura la “bravura”, la forza volitiva nell’andare avanti. Questo a testimonianza che le beghe, gli inghippi, l’irrazionale che rema, a volte, contro la produttività stessa sono piccole necessità tiranniche quotidiane, insite al “sistema”. L’ammissione gioiosa del piacere di farne parte è una condizione inscindibile, non contrattabile, implicita alla nostra entrata nel mondo del lavoro, della scuola, dell’università, della vita adulta che sempre più assomiglia a una recita protratta, degenerativa dell’infanzia. Un’ infanzia vecchia, un progredire esteriore accompagnato dalla caduta a picco di un desiderio autentico di “crescita” sociale. La protagonista, Anna, non sorride e non solidarizza, senza intenzioni reali di snobismo, ma solo perchè realmente assorbita dai suoi incarichi, consapevole, nonostante il legame al suo mestiere, che gli affetti e la solidarietà si trovano al di fuori del luogo in cui passa gran parte delle sue giornate. Il suo viso e la sua figura dimessa denunciano, ineluttabilmente, l’assoluta vacuità di un ambiente formale e poco attraente, e questa denuncia viene duramente punita. L’innaturale ma dovuta maturità della bambina protagonista nasce dalle vessazioni, dalla contrapposizione spontanea all’ordine caotico e bizarro della vita adulta, dal capriccio e dalle sgargianterie male orchestrate (da qui l’interpretazione, volutamente innaturale, dei due “capi”) che il film espone nella loro cupa bruttezza.

Chiara F

Recensione n.2

Lo scottante tema delle nuove forme di precariato, emerso a seguito delle tanto dibattute riforme sulla flessibilità del mercato del lavoro, è attuale e delicato, ed il cinema italiano che nel passato aveva sempre palesato con evidenza la propria “vocazione civile”, pareva dimostrare, latitando sull’argomento, un suo attuale scollamento con la realtà. Peraltro all’estero il tema dell’intensificarsi di questa malattia sociale che è l’alienazione da lavoro, è già stato ampiamente affrontato, e non solo da Ken Loach, mi riferisco tanto per fare un esempio agli ottimi due film del francese Cantet. Non che il cinema abbia l’obbligo “morale” di occuparsi d’un certo tipo di tematiche, tantomeno di schierarsi politicamente, eppure era lecito, a fronte di quanto ora esposto, aspettarsi prima o poi un film sull’argomento. In tutta onestà debbo dire che non ero molto fiducioso sulle potenzialità di un film italiano che, affrontando un tema così scottante necessitava rigore stilistico, una storia e soprattutto dei personaggi notevolmente caratterizzati, ma soprattutto una vitalità che spesso latita nell’odierno panorama cinematografico nazionale. Sorpresa ancor maggiore, dunque, nell’aver scoperto come questo film di Francesca Comencini sia rigoroso, appassionato, commosso, coinvolgente. Mi piace lavorare affronta il tema del mobbing – in due parole l’emarginazione di un lavoratore da parte di capi e colleghi – ma la sua valenza artistica mostra una vocazione di più ampio respiro, in maniera analoga a dir la verità a quanto fanno le opere di Loach anche se si occupano, di volta in volta, di aspetti specifici quali le 35 ore, il lavoro nero, la disoccupazione. E soprattutto parte da una storia estremamente semplice, anzi si può dire che ponga in secondo piano la storia del protagonista al protagonista stesso: una donna non più giovane con figlia e padre malato a carico, pochi amici e senza un uomo accanto. Eppure la donna ostinatamente si reca al lavoro tutti i giorni, noi spettatori vediamo con lei sempre la stessa metropolitana, lo stesso cartellino timbrato, la scrivania, la mensa… Ma a lei “piace lavorare”: se si esclude l’amore immenso che lo lega alla piccola non ha altre soddisfazioni dalla vita, e forse in conseguenza di ciò si lega ad una professione che non è bella in sé, ma quantomeno le permette di arrivare, a fatica, alla fine del mese, e di poter mantenere la figlia e forse regalarle un’avvenire migliore del suo. Poi, lento ed inesorabile, si fa strada il mobbing, tanto più terribile in quanto ingiustificabile, ed il film è la storia di questo lento scivolare nella frustrazione di una donna sola, debole, emarginata. Chissà perché la gente, codarda, se la prende sempre con i più deboli… Ma la lettura del film come detto non si esaurisce nell’analisi del mobbing in sé e per sé, è l’intero mondo del lavoro a farsi oggetto della messa in scena, e forse è l’odierna società occidentale, il cui elemento più evidente è la spersonalizzazione dell’individuo. Nei dialoghi, nei volti, nei gessati dei vestiti eleganti si legge la freddezza atroce del mercato, la odiosa regola della produttività a tutti i costi, parole vacue si aggirano minacciose quali profilo professionale, collaborazione di squadra, nuove mansioni vitali per l’impresa. La Comencini gira sporco, macchina a mano, primi piani di gente comune, non bella, non truccata, poco soddisfatta. Il normale “grigiore” della quotidianità di tutti noi, costretti nonostante tutto a barcamenarci tra stress (tanto) e soddisfazioni (poche) per portare a casa la pagnotta, si fa immaginario cinematografico della nostra giornata lavorativa standard. La forza evocativa ed onirica propria della macchina cinematografica, la cosiddetta “magia del cinema”, viene qui frustrata, l’idea di rappresentazione che sta alla base della pellicola è scevra da sensazionalismi, il che si traduce in un linguaggio che rifiuta gli abbellimenti dello stile elegante, zoom o panoramiche od ampie e suggestive inquadrature, ed anzi il traballare della macchina da presa suggerisce una sensazione di precarietà.
Amaro e suggestivo il finale: dopo infinite umiliazioni la donna decide di rivolgersi ai sindacati, poi la narrazione subisce uno scarto e si passa all’anno successivo, dove Anna riceve l’assegno di risarcimento conseguente alla vittoria della causa, ed Anna si(ci) chiede: ma sarà davvero una vittoria? Nessuno potrà risarcirla del torto subito…Finalmente un film al femminile, che offre un ritratto di donna che non sia la solita moglie di, fidanzata di, letterina o valletta da tubo catodico, bensì un ruolo sofferto, intenso, che offre a Nicoletta Braschi una grande chance per dimostrare tutta la sua bravura, in quella che è sicuramente la sua migliore interpretazione (forse, nel suo passato tra Benigni e poco altro, sprecata?). Un plauso va pure all’intensa interpretazione della bambina, per un’opera che conferma la vocazione femminile.
In ultima analisi, un grande film, non solo nella categoria del cinema d’impegno civile, ma all’interno dell’interno dell’intero panorama cinematografico italiano recente, un film che sa costruirsi uno stile di regia rigoroso ma mai fine a sé stesso (come spesso accade qui da noi, tanto per non fare nomi Garrone) funzionale alla storia ed ai personaggi, appassionato ed appassionante, forte e coinvolgente da un punto di vista emotivo, che ti resta attaccato alla pelle per lo sporco della pellicola, per il volto della Braschi, per l’odiosa ma, ahimè, assolutamente verosimile calvario ch’ella deve patire. Probabilmente il miglior film italiano dell’anno.

Mauro Tagliabue