Il nuovo film di Anghelopoulos impone allo spettatore una domanda: è sufficiente il sopraffino rigore stilistico di un celebrato autore a giustificare due ore e mezza di visione? Il primo capitolo d’una progettata trilogia che il regista greco vorrebbe dedicare alla Storia, quella del suo paese all’interno del quadro più generale delle vicende internazionali, sin dalla partenza pare gravato dell’enorme peso di un’ambizione spropositata, quella di raccontare la storia, meglio l’epopea di due giovani nel travaglio di eventi che hanno segnato la Storia del novecento. Idea senza dubbio affascinante, peraltro già tentata in passato non solo al cinema e, come spesso accade per progetti che s’imbarcano in imprese colossali, poco riuscita. Un parallelo con il Novecento bertolucciano appare però fuorviante: la materia in quest’ultimo era eccessivamente cara al regista, un eccesso di coinvolgimento lo privava del necessario distacco dalla propria opera, qui invece il tutto appare eccessivamente studiato a tavolino, palesandosi in un freddo teorema del dolore testimone solamente dell’incapacità da parte del regista di trasmettere allo spettatore un po’ di amore per i propri personaggi. Segnatamente, il film manifesta la propria natura di finzione, i protagonisti appaiono estranei alla realtà narrata e non traspare dalle loro caratterizzazioni alcun elemento di realistico, difetto tanto più grave se l’obiettivo è quello di raccontare la Storia, la quale è fatta di dolore, disperazione, ma anche di speranza, di ideali, di amore. E se a Bertolucci perdonavamo l’eccessivo afflato che dopo tutto riusciva a coinvolgere pure noi spettatori, ed il film pur con evidenti difetti rimane un “faro” nella nostra cinematografia, non perdoniamo ad Anghelopoulos questo saggio teorico e sinceramente noioso, proprio perché il cinema è in primis fatto di emozioni e autenticità. Al termine della visione resta nella memoria, per chi riesce ad apprezzarlo – e a non addormentarsi -, lo stile elegante e sinuoso del regista, rigoroso nel cercare una fluidità visiva attraverso il lento ma continuo movimento della macchina da presa, gli zoom leggeri, le panoramiche suggestive sempre alla ricerca di un’immagine kubrickianamente prospettica della messa in scena (si veda la disposizione delle case nel villaggio dei protagonisti). Tutto il resto è pretestuoso, asettico, distaccato, e lo stile non sorretto dall’autenticità artistica alla fine scade pure esso nel manierismo se non nell’autocompiacimento. Anghelopoulos non gira, pontifica. La storia si spiega in due parole: due innamorati fuggono dal paese natale il giorno del di lei matrimonio, combinato ed indesiderato, e conoscono una compagnia di musici poveri alla continua ricerca di denaro. I due gemelli strappati a lei in giovane età si riuniscono alla coppia, ma poi lui per cercare fortuna va in America, scoppia la Guerra Mondiale, la ragazza viene arrestata, esce di galera convinta da una lettera che l’amato sia morto e trova un figlio, anch’egli, deceduto. Fine della prima puntata. Non uso i nomi dei protagonisti perché nulla ci viene detto di loro, paradossalmente i protagonisti assoluti di due ore e mezza di proiezione non vengono in alcun modo caratterizzati nelle passioni, negli ideali, nei sentimenti reciproci. Il film è infarcito di immagini simboliche, dalla statua della libertà alla passione cristologica dell’ultima sequenza (con il mitre che sembra una croce) di difficile e confusa lettura, grave tantopiù se pure la storia ha degli elementi poco comprensibili (la partenza per l’America, il ritorno dei gemelli dalla madre, l’arresto di lei). Si ritrova tra le pieghe del film più di un riferimento alla tradizione “alta” del cinema europeo: le feste di paese e la curiosa e strampalata compagnia dei musicisti ricordano Kusturica, ma senza il suo graffiante senso del grottesco, anzi in totale assenza non solo del grottesco, ma di un seppur minimo accenno di ironia, di leggerezza; altre immagini suggeriscono vaghe reminiscenze felliniane, come il ballo in riva al mare che convince la ragazza a non andarsene. Ma tutto viene ritratto con monotonia, come un’automobile che viaggia sempre alla medesima velocità, in assenza di cambi di marcia, senza sterzane attraverso i terreni dello stralunato, del poetico, del provocatorio, come una mega-coppa gelato da due chili e mezza tutta dello stesso insipido gusto. Tornando alla domanda iniziale: è sufficiente per fare una pellicola lo stile elegante e rigoroso del suo autore? Se in questi tempi “videoclippari” un film che pesa gli stacchi di montaggio e persegue il recupero della purezza dell’inquadratura non può che farci piacere, col passare dei minuti ci si accorge del difetto d’ogni altro elemento che dovrebbe sorreggere tale visione, una storia “significativa”, personaggi forti, emozioni e nemmeno, per la verità, metafore ed immagini suggestive. L’urlo straziato della madre di fronte al figlio morto nell’ultima inquadratura, non è per nulla straziante, ci lascia impassibili, disinteressati alle disavventure che coinvolgeranno i protagonisti nel successivo episodio.
Mauro Tagliabue