Se “Caterina va in citta’” poteva risultare un po’ superficiale nella semplificazione con cui riassumeva mode, comportamenti e scelte olitiche dei giovani under-18, in confronto all’opera prima di Luca Lucini e’ un fine trattato di sociologia. “Tre metri sopra il cielo”, infatti, con la scusa di raccontare il primo amore che non si scorda mai, scimmiotta il peggio della televisione. Non tanto tecnicamente (nonostante gli evidenti ammiccamenti a pubblicita’ e videoclip), quanto sul piano dei contenuti. Il contesto sociale in cui si muovono i giovincelli e’ l’alta borghesia romana, con una protagonista tutta fighina che non trova di meglio che trasgredire con il ras del quartiere, sfacciato e burino ma con un cuore tanto e un trauma alle spalle non ancora superato (ha pestato l’amante della mamma, della serie solo a lui e’ concesso trasgredire!). Conflitto di classe, ma fino a un certo punto pero’, perche’ anche il giovine e’ un figlio di papa’, che ha rinnegato babbo, ma soprattutto mamma, decidendo di viver alla giornata, tra sfide in moto e atti vandalici. I due si incontrano e, secondo la legge degli opposti (ma va?), dopo qualche incomprensione finiscono per innamorarsi. Costruito per compiacere il teen-ager nazionale, il film evita di prendere qualsiasi posizione e si limita a grattare la superficie delle giovani generazioni: ecco quindi le super feste all’Olgiata (noiose ma imperdibili), le gare di velocita’, i genitori assenti, i trentenni lavoratori babbidiminchia, la scuola (ovviamente privata) e alfin l’amore. E’ curioso constatare come i due protagonisti non facciano per tutto il film un discorso che sia uno, ma si limitino a prendersi e lasciarsi tra baci, pianti e, soprattutto, sms. L’accettazione passa sempre e comunque attraverso la dimostrazione del sentimento e l’amore assume la profondita’ di una qualsiasi merce di scambio: ti voglio bene, quindi faccio (scrivo il tuo nome su un ponte) o non faccio (non sfascio le case dei ricchi) per meritare la tua attenzione. La realta’ descritta ha sicuramente un fondo di verita’, ma cio’ che irrita e’ l’ennesima esaltazione acritica e pure moraleggiante (poteva mancare la vittima sacrificale?) del vuoto di una generazione. E non tanto perche’ di cattivo esempio per i ragazzotti in eta’ scolare (cavoli loro e di chi si occupa della loro educazione), quanto per la scelta furbetta di buttare la’sempre le solite quattro scemenze, scomodando pure Shakespearee “Gioventù bruciata”, e farci sopra un film. Gli attori, pur senza strafare, sono meglio delle macchiette che interpretano, mentre adare il colpo di grazia definitivo (ce ne fosse bisogno) e’ la voce fuoricampo in stile DJ con cadenza molto “gggiovane”: un (im)perdibile concentrato delle piu’ trite ovvieta’ che si continuano amettere in bocca agli adolescenti pensando di fare tendenza e limitandosi, invece, a raschiare il fondo della fantasia.
Luca Baroncini (da www.spietati.it)