Regia di Mel Gibson, con Jim Caviezel, Monica Bellucci, Rosalinda Celentano, Ivano Marescotti, Claudia Gerini, Maia Morgenstern (2004). Durata: 2 ore 15 minuti.

Recensione n.1

“Fu crocifisso per la nostra salvezza patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è resuscitato secondo le Scritture; è salito al cielo e siede alla destra del Padre.”
Il film e’ tutto qui. Non una virgola di piu’ e non una di meno. Quante volte abbiamo sentito e ripetuto queste parole, quante volte ci sono state spiegate. Eppure la sensazione – forte e comune – che si ha quando si riaccendono le luci della sala e’ di sbigottimento. Possibile che si sia inventato tutto? Eppure le parole dette e i fatti rappresentati coincidono… che cos’e’ che non torna? Un qualcosa che scuote non solo le emozioni ma anche la mente, che tocca corde capaci di entrare in risonanza tra loro ed amplificarsi con una forza totalizzante. E’ la realizzazione di una distrazione tra coscienza, conoscenza e percezione. Mel Gibson, alla sua terza performance da regista, esprime una vivida tecnica narrativa pregna di contaminazioni proprie di altri generi, rendendo la sequenza delle scene mai scontata, persino avvincente, ed estremamente piu’ vicina alla nostra sensibilita’
percettiva. In effetti ha visualizzato cio’ che tutti noi conosciamo e ce lo ha sbattuto in faccia in tutta la sua crudezza e drammaticita’. Una doverosa licenza ai Testi, del tutto condivisibile vista la natura figurativa del cinema, e’ la personalizzazione del Male (sia esso Satana, che e’ la debolezza, il rimorso, la solitudine, la paura) in cui l’interpretazione della Celentano, sebbene monotona, mi sembra superi per intensita’ sia quella della Bellucci che della Morgensern, le quali risultano, in contrasto con il resto del film, ancora troppo vicine alla loro classica rappresentazione iconografica).
La scelta di mantenere l’aramaico e il latino impongono una attenzione totalizzante, ed esaltano ancora di piu’ il realismo dell’opera che riesce a coniugare la propensione al titanismo dello stile narrativo di Mel Gibson (vedi Braveheart) con una fedele ricostruzione storica, o almeno aderente a quanto scritto nella Bibbia. L’esatta antitesi del truculento iper-realismo manieristico dello Spielberg di “Salvate il soldato Ryan”.
Di Italiano nel film c’e’ davvero tanto, e non solo in termini di cast, produzione e ambientazione (il film e’ stato girato in Basilicata). Forse, prima di tutto, percettibile e’ l’influenza dell’incontro con Zeffirelli per “The Hamlet”, ed un legame con il “Gesu’ di Nazareth” credo non possa essere negato; cosiccome la figura di Ponzio Pilato ricalca in maniera simmetrica da un punto di vista introspettivo il nostro “Secondo Ponzio Pilato” (di Luigi Magni, con Nino Manfredi, 1988).
In barba alle pretestuose polemiche che stanno continuando a infuriare negli Stati Uniti, tra comunita’ ebraiche, cristiane, repubblicane e democratiche, e quanti altri non resistono a non dire la loro (tra i quali, evidentemente, ci sono anch’io), alle difficolta’ di distribuzione incontrate, all’atteggiamento di Hollywood e ai tentativi ripetuti di boicottaggio, abbiamo finalmente un film che non bada al “politically correct” e che non ha paura di mostrare cio’ che tutti sanno.
Piu’ che probabilmente non vincera’ nessun Oscar, quando potrebbe arrivare il suo turno (avanti, facciamoci del male, ricopriamo d’oro il rumore di niente di Master&Commander e per consolarci sorbiamoci quella boiata di “Pirates of the Carribean”, candidata a ben 5 nominations… Tolkien ce ne scampi!), ma senz’altro un film con tutti i crismi per diventare un “vero” classico (non sempre poi i classici sono i film tecnicamente migliori) da consegnare alla storia del cinema e da tenersi stretto in cineteca.

Mattia Bonsignori

Recensione n.2

Una premessa è doverosa accostandosi a questo The Passion, terza fatica registica di Mel Gibson: si tratta solo e soltanto di un film. Una precisazione non così scontata come a prima vista potrebbe sembrare, visto lo sconcertante interesse mediatico e, purtroppo, non solo che questo nuovo film su Gesù ha suscitato. Una testimonianza emblematica dell’incredibile potere di penetrazione psicologica di quest’opera è il sito www.themiraclesofthepassion.com, dove ci possiamo imbattere in incredibili testimonianze di vite profondamente cambiate dalla visione di questo film: si va da chi ha preso i voti, a chi si è semplicemente convertito, fino ad un pluriomicida che si è costituito ad anni di distanza dalla fine della sua “carriera”, consegnandosi all’esterrefatta polizia schiacciato dal senso di colpa che il film di Gibson gli ha suscitato. Abbiamo anche i tristi casi di due donne stroncate in sala dall’emozione suscitata dalla cruda violenza del film. La precisazione che si tratti solo di un film serve anche per “censurare” stupefacenti attestati di stima nei confronti del regista, come quello di Giuliano Ferrara su Il Foglio, che definisce Gibson “il Quinto Evangelista”, senza, peraltro, aver ancora visto il film.
Proseguendo con le premesse ma avvicinandosi gradualmente al film, è buona cosa soffermarsi proprio su Mel Gibson, sia sul piano artistico, sia su quello personale. Si è detto in precedenza che il regista australiano vanta solo due precedenti esperienze registiche, L’Uomo Senza Volto e Braveheart. Il primo è un commovente racconto che ha per protagonista un uomo sfigurato, il secondo è la storia del patriota scozzese William Wallace, un kolossal storico di cui però, nel nostro discorso, prendiamo, per un attimo, in considerazione soltanto una sequenza: la brutale ed efferata tortura del protagonista, un’unità narrativa di grande violenza e assolutamente slegata dal contesto del film. Interessante notare come Wallace abbia una pesante trave di legno legata sulle spalle, in una posizione che ricorda da vicino quella della Crocifissione. Queste osservazioni ci consentono di notare come Gibson abbia una sorta di predisposizione alla rappresentazione di corpi sfigurati, un interesse, forse, morboso, per la sofferenza fisica e le ferite della carne.
Sul piano personale, è pertinente ad un discorso sul film in questione una ricognizione generale sulla visione religiosa del regista australiano. Gibson, infatti, appartiene ad un movimento cattolico conservatore che non riconosce il Concilio Vaticano II, tenutosi tra il 1962 e il 1965 e “aperto” e voluto da Giovani XXIII. I punti salienti del Concilio rigettati sono “l’apertura” della testimonianza evangelica ai laici (il che stride con la volontà di rappresentazione della Passione di Cristo da parte di un regista “laico”), la riforma della Messa (Gibson si è fatto costruire nel giardino della propria villa a Malibù una cappelletta in cui la Messa è rigorosamente recitata in latino e l’Eucarestia non è facente parte della Celebrazione), l’apertura verso le altre religioni e la cancellazione delle responsabilità ebraiche nella morte di Cristo. Da queste considerazioni, passando all’analisi del film, possiamo comprendere la provenienza di alcune scelte stilistiche, narrative, estetiche e “linguistiche” di Gibson.
Partiamo proprio dalle scelte linguistiche. Come ormai tutti sanno il film è parlato in aramaico e latino, sottotitolato nella lingua del paese in cui è distribuito. Questo per una sorta di realismo maggiore e per aderenza alla celebrazione classica della Messa. Alcuni studiosi hanno sottolineato come, con massima probabilità, nelle regioni periferiche dell’Impero Romano del I secolo d.C., la lingua parlata, specialmente nelle interazioni fra i popoli indigeni e i romani conquistatori, fosse il greco. Un greco assai semplificato, forse, di natura pratica e commerciale, ma probabilmente lingua più diffusa.
Dal punto di vista narrativo Gibson si è dichiarato assai fedele ai Vangeli, tuttavia è facile riconoscere alcuni episodi che non ne fanno assolutamente parte. La maggior parte di questi non provengono, come è stato scritto, da Vangeli apocrifi, bensì dalle “visioni” di una mistica tedesca in odore di beatificazione dal nome di Anne Catherine Emmerich. I più evidenti fra questi episodi sono quelli legati alla figura del Diavolo, interpretato da Rosalinda Celentano, figlia di Adriano, doppiata con voce maschile.
Sulle scelte stilistiche e di “taglio”, il film ha suscitato polemiche e reazioni contrastanti principalmente su due questioni: la violenza di alcune sequenze e l’antisemitismo che il film sottenderebbe.
A proposito della violenza, il mondo religioso, quello cattolico in particolare, si è diviso in due, tra chi, da una parte, difende a spada tratta il film ritenendolo un fedele e devoto ritratto di ciò che realmente è accaduto a Gesù, e chi ha trovato eccessivo e insopportabile il “macello” filmato dal regista. La critica cinematografica ha, con poche eccezioni, trovato poca logica nelle scelte del regista australiano. In particolare colpiscono due sequenze, la flagellazione e la crocifissione, preceduta dall’ascesa al Calvario. Sulla flagellazione premettiamo doverosamente che la legislazione romana prevedeva 39 frustate, cioè quaranta meno una, per i condannati, mentre quelle di Gibson sono un’ottantina. Gibson si è giustificato in ciò dicendo che “l’uomo della sindone è un uomo senza più pelle”. Allora, ci permettiamo di osservare, l’uomo della sindone ha i pollici girati verso il palmo della mano, perché i chiodi gli sono stati conficcati nei polsi e non nei palmi. Perché, allora, seguire la Sindone in un caso e nell’altro no? Resta comunque l’enorme perplessità di fronte alla scelta di filmare un’azione ripetuta così tante volte in tutto il suo svolgimento, senza ellissi, senza variazioni temporali. Il risultato è che, superata l’innegabile shockante emozione iniziale, la scena risulta noiosa. Sulla crocifissione, si è già detto sopra sui chiodi nelle mani e non nei polsi. Questo, si badi, non è un errore, perché spesso i romani usavano questa forma di crocifissione servendosi di lacci per tenere il condannato sulla croce. E’ questo il caso del Gesù di Gibson, che però, si è già detto, non coincide con quello della Sindone. La salita al Calvario è un’altra sequenza lunga e ripetitiva, in cui, tra l’altro, Gesù porta l’intera croce e non solo la trave longitudinale, come vorrebbe la tradizione e che giustificherebbe la lussazione alla spalla che, tradizionalmente, costringe il Centurione a lussare il gomito di Cristo per distendergli il braccio, presente nel film. Queste imprecisioni storico-evangeliche si sommano ad altri errori addirittura più grossolani: in un flashback tutto sommato riuscito, Gesù ricorda il rapporto con Maria, la madre, in tempi felici. Ricorda una mattina di lavoro nel costruire un tavolo, e il gioco affettuoso con la madre che lo invitava a rientrare per il pranzo. Un unico neo: Gesù non era un falegname, come il padre, ma un carpentiere. Altra imprecisione: Monica Bellucci è la Maddalena, ma, deduciamo da un altro flashback, è anche l’adultera, la donna che Gesù salva dalla lapidazione. Gibson mescola i due personaggi, non sappiamo se volontariamente. Non sappiamo come mai, inoltre, sulla croce l’iscrizione irrisoria posta sopra il capo di Cristo, il “titulus crucis” non sia scritto anche in greco.
Passando all’antisemitismo, forse sarebbe opportuno ricollocare la presunta visione antisemitica del film in un’ottica più generale concernente lo spessore dei personaggi di The Passion. Con poche eccezioni, che analizzeremo più avanti, sconcerta l’assoluta piattezza delle figure tratteggiate dal regista australiano. I centurioni sono tutti sadici, efferati e pure assai brutti, i sacerdoti del sinedrio sono malvagi e mancano di complessità, risultando come incomprensibili giudici di morte. Ma l’apice è raggiunto con Barabba. Il criminale, ci viene tramandato, era il leader degli zeloti, una frangia anti romana degli ebrei. Era un capo politico, quindi, presumibilmente, un uomo carismatico, di personalità, tant’è vero che ha sempre acceso la fantasia di scrittori e intellettuali, originando una letteratura a lui dedicata incentrata sugli eventi successivi all’incontro con Gesù che ha come punto più alto il romanzo del 1950 del belga Par Lagerkvist, da cui è stato poi tratto il bel film con Anthony Quinn. Gibson ci mostra un Barabba ferino, bestiale,una specie di uomo-bestia, che salta tra la folla dopo aver mostrato, trionfante, la lingua ad un centurione. Chissà se Gibson sa che Bar-Abba vuol dire “Figlio del Padre” ed era il nomignolo degli orfani di padre. Che sia questa l’origine delle movenze ferine del ribelle?
Si diceva sopra di personaggi ben riusciti. L’esempio più importante è quello di Maria, ben interpretata da Maia Morgentsern, attrice rumena, che ne accentua il lato umano, di madre sofferente e rassegnata, creando una figura commovente e delicata. Straordinario, e quindi raro, il flashback in cui la donna accosta la caduta del figlio sotto la croce durante l’ascesa al Calvario, ad uno scivolone di Gesù da bimbo, constatando l’impossibilità di soccorrerlo come allora. Bellissima anche la scena in cui, dopo l’orrenda flagellazione, alla Madre, sconvolta, non resta che asciugare il sangue del di Gesù che ricopre il pavimento. Positivo anche il personaggio di Giuda, e soprattutto pregevole è la sequenza del suicidio di Giuda, il cui delirio intessuto dai sensi di colpa è reso attraverso la presenza di piccoli, demoniaci bambini che lo inseguono urlando, a rappresentarne i rimorsi. Per cui, tornando ad rem nostram, la visione antisemitica ci sembra una risultante di un appiattimento dei personaggi verso il basso, salvate queste eccezioni, che porta ad una manichea visione della storia e del mondo narrato, e che produce uno strappo profondo tra i “buoni” della storia e i cattivi. Gli ebrei, naturalmente, sono fra i più cattivi.
Su altri due punti è necessario spezzare una lancia in favore del film. In primo luogo il film è indubbiamente suggestivo sul piano visivo. Gibson, infatti, si rifà, per la costruzione fotografica della propria opera, ben coadiuvato dal direttore della fotografia Caleb Deschanel, ad alcune opprimenti raffigurazioni pitoriche medievali del XIII secolo, riprendendone, soprattutto, le tonalità livide, la predominanza del beige e il colore cupo del sangue, e cita alcune opere di natura religiosa del Caravaggio.
Altra nota positiva per l’assurda ma coraggiosa sequenza finale del Pianto di Dio. Spirato Gesù, infatti, la telecamera si alza a volo d’uccello sul Calvario, quasi a creare un’inquadratura satellitare e si ferma ad osservare la scena dall’alto; poi una leggera patina deforma l’immagine, fino a cadere sulla terra sotto forma di goccia d’acqua. E’ una pazzesca soggettiva di Dio,impensabile, teologicamente discutibile (perché Dio dovrebbe piangere proprio al compimento della missione salvifica di Gesù?), ma emozionante e, finalmente originale, che risalta in una sterminata sequela di rallenty scontati e, spesso, fuori luogo, di sequenze assurde da kolossal (il terremoto finale) o film d’azione, di flashback che liquidano in pochi secondi momenti che, sebbene estranei alla Passione di Gesù, ne esplicano il messaggio e sono alla base del sacrificio Cristiano. E soprattutto risalta davanti alla deludente sequenza successiva, la Resurrezione, esaurita in venti secondi e sbrigativamente, mettendo ancora in primo piano le ferite di Gesù, le stimmate, quasi a sottolineare, ancora una volta, che a sofferenza e la morte sono la parte fondamentale del messaggio.
Un’ultima notazione è resa indispensabile dalla concomitante uscita al cinema della versione restaurata dal Centro Sperimentale del Vangelo Secondo Matteo di Pasolini. Il film di Gibson condivide con quello pasoliniano l’ambientazione: Matera. Gli esterni di The Passion sono infatti stati girati nella città della Basilicata, ed è l’unico legame fra le due opere, nonostante il regista australiano abbia spesso citato Il Vangelo Secondo Matteo come un modello. Ci permettiamo di ricordare a Mel un proverbio che dice: scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. In tutti i sensi.

Simone Spoladori

Recensione n.3

Il lungometraggio di Gibson impone a mio modo di vedere una riflessione: è sufficiente una fotografia incisiva, scenografie curate ed una galleria di costumi notevoli a fare un film? “La Passione di Cristo” rievoca le vicende bibliche che dal Giardino del Getsemani giungono sino alla Resurrezione, episodi che qualunque occidentale, credente o meno, conosce alla perfezione sin dalla tenera età. Ed allora se la storia non narra nulla che non si conosca già, il regista di turno si trova dinnanzi alla sfida più ardua che si possa offrire ad un cineasta: narrare attraverso le immagini (movimenti di macchina, scelte stilistiche, in una parola la regia) raggiungendo con esse e solo con esse l’originalità. Ebbene, questa sfida Mel Gibson l’ha perduta, confermandosi regista mediocre. Lo dico per sgomberare il campo dall’equivoco che l’attore australiano debba essere considerato un “autore” in quanto vincitore della statuetta alla regia per “Braveheart”, film di un certo pregio, ma che trovava la propria forza espressiva e visiva nelle ottime sequenze di battaglia, girate ahimè dal regista della 2ª unità Peter MacDonald, abituè degli action al quale l’Accademy non si sognerebbe mai di dare nemmeno una nomination. Temo nella ricaduta in un nuovo equivoco: quello per il quale il film sia definito “tecnicamente” valido ancora per motivi altrui, in questo caso, come già ho detto sopra, il direttore della fotografia, lo scenografo, il costumista.. Eliminata l’interessante scelta di evitare le sfarzosità, preferendogli una messa in scena a tratti minimalista, il resto dell’immaginario gibsoniano è piatto, monotono, e scade nel ridicolo per un eccesso di ralenti che appare l’unica cifra stilistica dell’opera, adottato per ogni caduta di Gesù, ogni frustata, un vero “calvario” per il cinefilo (magari memore delle “cattoliche” visioni di Pasolini, Ray, Jewison…). Numerosi sono poi gli ammiccamenti holliwoodiani celati tra le righe: Pilato introduce Barabba quasi fosse un “wrestler” o comunque un divo massmediatico, Gesù che si rialza eroicamente dopo la prima serie di fustigate più che il figlio dell’Uomo sembra il Kurt Russell dei tempi di “Iena”; ed ancora, le cinghie che volteggiano in aria seguite dal brusco stacco di montaggio a mostrare gli spruzzi di sangue, un centurione che lancia a Giuda il sacchetto col compenso del tradimento come fosse John Wayne, in un susseguirsi di cattivo gusto e di immagini banali culminante nella ripresa dal basso della croce degna di un filmaker alle prime armi che al contrario è stato insignito dell’Oscar, onore del quale non sono stati degnati personaggi come Scorsese, De Palma, ecc. Holliwood smarrisce sé stessa, oltre a sequel e remake (come questo “La Passione”) non riesce più a produrre, ed il cinema popolare del quale avremmo tanto bisogno si riduce ad asservire i più bassi istinti del pubblico medio-televisivo, attratto dal sadico, dal macabro, dalla violenza insistita.
L’impostazione esclusivamente cinematografica della mia analisi è volutamente in contrasto con tutti i dibattiti etico-filosofico-religiosi originati dal film, il quale, criticato o meno, è stato riconosciuto di buona “fattura artistica”; ed allora “Il re dei re” (peraltro non annoverabile tra i capolavori di Ray) sarebbe probabilmente il film più bello della storia del cinema. Una sola parola sull’aspetto ideologico: l’elogio del sacrificio per una giusta causa a suon di carni squartate e fiotti di sangue mi pare, senza voler apparire un fanatico dell’ateismo, l’opera di un esaltato (Gibson ha pubblicamente confessato il piacere da lui provato per l’uccisione e la flagellazione degli animali!), tanto più pericolosa a fronte dell’attuale situazione internazionale.

Mauro Tagliabue

Recensione n.4

Immaginiamo una favola a tutti nota raccontata da uno zio ubriaco, che anziche’ anelare all’essenza si perde nei dettagli piu’ raccapriccianti, per stupire e sconvolgere. Ecco, il Vangelo secondo Mel Gibson si puo’ riassumere cosi’: una versione horror e grottesca della passione di Cristo. La visione del regista e’ sicuramente originale e molto personale, quindi coraggiosa e indubbiamente rispettabile, ma questo non fa di “The Passion” un bel film. Anzi, tutt’altro. Pompato a dismisura dalla gigantesca macchina del marketing, sembra il delirio di un integralista religioso che fa del cattivo gusto il suo mentore espressivo. Tutte gratuite e finalizzate alla promozione le polemiche e il gran parlare intorno al film, che trova un motivo per essere visto unicamente nel tentativo di capire l’entita’ del fenomemo. Ed e’ incredibile il riscontro conseguito, con tutta probabilita’ impensabile anche per lo stesso Gibson, perche’ sulla carta (e nei fatti) il progetto appare fallimentare sotto ogni punto di vista. L’originalita’ sta nella scelta linguistica (aramaico e latino con sottotitoli) e nel compiacimento attraverso cui nulla ci viene risparmiato del calvario di Cristo, ma su tutto grava il peso non indifferente del cattivo gusto e della superficialita’. Personaggi macchiettistici (un Barabba che pare Bombolo redivivo; i flagellatori romani, sopra le righe anche per un docu-fiction sull’uomo di Neanderthal) e scelte di regia grossolane, fatte di ridondanti ralenty (srotolato il film durerebbe una mezz’ora), inespressivi e plastici primi piani che suonano irrimediabilmente falsi, inutili momenti didascalici (Maria chinata stringe la terra tra le mani chiuse a pugno per poi alzarsi e aprirle di scatto, roba da teatrino parrocchiale o telenovela brasiliana), simbolismi d’accatto (Satana, ma che c’azzecca?), flashback infantili, virate trash (le visioni allucinogene di Giuda, il corvaccio che toglie l’occhio al ladrone, il piccolo mostro ciribiribikodak in braccio a Satana) e un’enfasi retorica a sottolineare, ce ne fosse bisogno, ogni gesto e battuta di dialogo. La violenza e’ il fulcro della messa in scena e viene sostanziata di dettagli morbosi, facendo leva sul voyeur che alberga in ogni spettatore e dando scaltramente l’idea che all’eccesso di crudelta’ corrisponda un maggiore rigore storico. Come se finalmente qualcuno fosse in grado di spiegare COME SONO ANDATI “REALMENTE” I FATTI senza tante censure per addolcirli, quando, invece, per un cristiano, cio’ che importa non e’ tanto come Cristo sia morto, ma il fatto che sia morto per poi risorgere e salvare l’uomo. Invece la visione personale di Gibson prevede una diretta proporzionalita’ tra i litri di sangue versati e la possibilita’ di redenzione. Solo se soffri come un cane avrai la vita eterna. Ma la ricerca di verita’, ad esempio attraverso la peculiare scelta linguistica, cozza con l’impianto retorico della messa in scena e con l’afflato epico del commento sonoro. Non e’, per assurdo, soffermandoci sul doloroso parto di Maria ancora vergine, con impressionanti dettagli genitali evidenziati da potenti stacchi musicali, che potremmo capire il suo non facile compito e dedurre COME SONO ANDATI “REALMENTE” I FATTI. Come dire, alcune informazioni hanno valore aggiunto, altre no e quelle a cui si attacca Gibson rientrano in quest’ultima categoria. Emotivamente gelido, nonostante gli affondi di regia, il film manca quindi totalmente di grazia e spiritualita’, riducendo la figura di Cristo a quella di un supereroe privato dei super-poteri, che, dopo atroci sofferenze, cade e si rialza come un Terminator qualsiasi. E’ proprio l’umanita’ di Cristo che non arriva, prigioniera di una maschera di sangue che cela una forza fisica sovrumana (chiunque dopo un paio di vergate come quelle mostrate, sarebbe dichiarato clinicamente morto), e non lascia trasparire alcun carisma, nessun messaggio d’amore. Gli attori si impegnano, ma spesso la loro resa espressiva e’ condizionata dall’inefficacia della messa in scena. Jim Caviezel ha le phisique du Christ, ma e’ poco piu’ di un Muppet. Monica Bellucci continua a darsi da fare rispetto agli esordi, ma (sempre escludendo la parentesi mucciniana) continua a non brillare per espressivita’. In ogni caso non e’ tutta colpa sua. Dopo i clamori e lo shock, ovvi data la delicatezza del tema e le diverse sensibilita’ attraverso cui puo’ essere interpretato, sara’ il tempo a dare il giusto metro di valutazione del film. Restera’ nella storia del cinema per gli incassi stratosferici, ma nel ricordo verra’ probabilmente riconsiderato fino a raggiungere la dimensione che piu’ gli si confa’: quella di autentico “scult”.

Luca Baroncini (da www.spietati.it)

Recensione n.5

Non si dovrebbe dare giudizi su un film cosi’ controverso come “The passion”, perche’ si rischia inevitabilmente di scontentare qualcuno che non si trova d’accordo con il giudizio. In effetti, se da un lato puramente tecnico il film e’ avvalorato da un sapiente uso della telecamera, della fotografia, della recitazione (tranne che per la Gerini, veramente ignobile) e della musica (anche se a volte di una solennita’ un po’ troppo eccessiva), dall’altra parte e’ una cruda e sanguinolenta rappresentazione di cio’ che la nostra mente proiettava come una cosa di gran lunga molto meno
barbara di quello che si vede (nessuno si e’ veramente mai soffermato sulla crudezza della Bibbia), ed e’ agghiacciante sapere che tutto quello che succede non e’ affatto una reinterpretazione sconsiderata del regista.
Il problema e’ che lo e’ troppo, fin nei minimi dettagli: il sangue scorre a fiumi, non si risparmiano le inquadrature delle ferite, delle frustrate, delle torture. A Gibson va riconosciuto certamente il merito di aver “inventato” questa specie di arte/splatter/religiosa, in cui piu’ che sui concetti, si sofferma sulla brutalita’ delle scene (o, per meglio dire, sull’effetto del reale), provocando agli stomaci piu’ deboli una discreta sensazione disturbante. Capisco (anche se non condivido pienamente) le critiche dei detrattori di questa pellicola, in effetti non e’ un film per tutti i palati, ma non c’e’ nessun compiacimento, nessuna mania di grandezza, nessuna visionarieta’ da pazzo. Questo e’ quello che c’e’ scritto sulle Sacre Scritture, che piaccia o no. La pecca di questo film e’ che purtroppo, e’ un tantino noioso. Per chi non conosce la storia (due o tre flashback nel film non aiutano di certo), il rischio di addormentarsi entro la fine del primo tempo e’ assai elevato: non c’e’ storia, non si parla di cio’ che ha fatto Gesu’, ma viene illustrato solo il significato del sacrificio e tutto il calvario. Per di piu’ e’ recitato completamente in aramaico. Una cosa e’ certa: nel bene o nel male, questo film continuera’ a far parlare di se per molto tempo ancora.
Nei secoli dei secoli. Amen.
Voto: 8

Wolf

Recensione n.6

Forse è troppo tardi per dirlo, ma con questa recensione spero di riuscire a distogliere coloro che non l’hanno ancora fatto, dall’intenzione di vedere questo film.
Lo dico con il cuore: era veramente da tanto tempo che non vedevo un film tanto brutto!!
Per convincervi potrei dirvi per esempio che mi è sembrato di guardare le barbarie naziste in versione splatter.
Non sono un medico, ma nono stante la mia ignoranza in materia, non credo proprio che sia umanamente possibile per un uomo fatto di carne e ossa, seppur figlio di Dio, subire percosse e frustate per ore senza perdere i sensi, anzi, riuscendo a portare la croce in spalla e non morire neanche quando gli vengono infilzati i chiodi nelle mani e nei piedi. Il tutto sottolineato da particolari inquadrature che riprendono sia il sangue lungo la strada sia quello assorbito dal legno della croce.
Non mi sembra che questo film abbia niente a che vedere con la vera Passione di Cristo, anzi direi che è tutt’altro che religioso e assolutamente privo di contenuti.
Questo film mi ha irritato profondamente, non solo e non tanto per i fiotti continui di sangue che sgorgano a fontana da un povero corpo dilaniato, ma soprattutto perché, come ha giustamente notato Zeffirelli (in un’intervista fatta per il TG2), se un bambino vede questo film immaginerà gli ebrei e gli antichi romani come un’orda di sadici assassini!
Spero che abbiate letto questa recensione fino alla fine perché se sarò riuscita a distogliere almeno uno di voi dall’andare a vedere The Passion (il cui titolo adatto sarebbe “The Torture”), allora la mia fatica nello scrivere una recensione per un film che non mi è piaciuto affatto, non sarà stata vana.

Giudichan (Giuditta Martucci)

Recensione n.7

Ho visto ieri Passion. Meritevole di visione lo è però….
Lascia molto sconcertati per la violenza e per la ricerca continua dell’effetto, che viene ricercato e ottenuto con indubbia abilità.
Sangue e espedienti da horror di serie B. Musiche banali hollywodiane.
Personaggi “cattivi” banalmente stereotipati (Barabba, Ebrei, Giuda: poverino!). Psicologia a tratti da asilo infantile.
Si dice che le semplificazioni siano state dettate dall’aderenza al vangeli, ma come film su Gesù e il suo messaggio a mio modesto parere il Vangelo di Pasolini è ampiamente superiore.
Passion si distingue più che altro per la crudezza delle immagini, a
tratti quasi splatter.
Fotografia e regia sono curate, ma a tratti l’effetto Braveheart (soprattutto nelle musiche) imperversa, come anche una solennità e un monumentalismo eccessivo. In fondo sappiamo che di Cristo si tratta!
Gibson vada a vedersi l’assoluta semplicità Pasoliniana! i messaggi di
Cristo sono spesso in secondo piano nel film di Gisbon rispetto alla
ricerca dell’effettaccio scenico e dell’emozione. Per l’amor di dio,
l’emozione arriva ampiamente, ma è più che altro è sbigottimento. E latita ampiamente nella parte conclusiva.
Pasolini invece fa esattamente il contrario, scena scarna, recitazione estraniata, musica bella e delicata (Bach e non la classica musica da effetto), focus sui concetti e non sugli effettacci.
Approccio completamente diverso, risultato formalmente ed esteticamente più interessante.
A Gibson rimane certamente un merito cinematografico, quello di aver inventato il genere religious-art-splatter, in effetti inedito.
E quello di aver creato un vero e proprio fenomeno di massa.

Vito Casale

Recensione Vangelo secondo Matteo

C’e’ l’Uomo, che nasce dalle parole del figlio di Dio, infante che muove alle lacrime uomini fatti, ragazzo deviato che parla da solo, per ore, cattiva compagnia per giovani bene. E’ l’Uomo che nasce dalle masse di poveri e diseredati, seconda linea dei sepolcri imbiancati che gestiscono il pane, il pesce e il pensiero.
Matera e lo sguardo di Pasolini, la sua abilita’ nello scovare occhi che parlano e che danno al gia’ splendido vangelo di Matteo l’emozione che fa vibrare un testo eterno; e anche chi come me non crede (e vorrebbe avere fede) esce redenta, colma di una spiritualita’ immanente ma non per questo meno irruenta e costruttiva.
Camera a mano e mescolanza anche musicale di sacro e profano per una pellicola che piu’ che moderna mi allungherei a definire eterna.
Mafe