Regia di Norman Maake, Sudafrica, 2003, 35mm, 94’
Le memorie del sottosuolo del cinema sudafricano si lasciano solcare dai demoni superstiti all’abolizione del regime di segregazione raziale agitando contro le stesse vittime la consapevolezza della loro passività e delle loro ottusità pregiudiziali travestiti con i panni della conflittualità tribale, nel tentativo di costruire il processo di conciliazione nazionale come atto riflessivo e mitopoietico fondato sulla maturazione immaginaria di una cittadinanza finalmente democratica seppur come soluzione di una lunga condizione di disperazione quasi superstiziosa.
Cosí nel film di Norman Maake si allegorizza miticamente la nascita del nuovo popolo sudafricano attraverso le lotte intestine dei disperati minatori degli ultimi livelli degli scavi e quelle esogene determinate dalla predazione esercitata su questi stessi dalle forze naturali evocate dallo sfruttamento capitalistico delle risorse : le qualità tensionali degli strati rocciosi resi labili nel loro equilibrio dalle escavazioni intensive assumono uno statuto individuale e dotato di una mobile soggettività cinematografica che mima una caccia il cui passo iniziale è la violenta esplosione dell’energia accumulata dalla roccia , come una minaccia ancestrale che solo magicamente puó venire elusa ricostituendo un’identità produttiva precedente all’industrializzazione ; mentre i soldati della pietra si affrontano per scegliere l’adesione all’economia di mercato.
La dimensione mitica e insieme politica dell’esordio di questo giovanissimo autore ha immediatamente garantito al film il Sugnis Jury Price, offerto dalla World Catholic Association for Comunications, ed il Lionel Ngakane Award per l’autore africano più promettente,(entrambi conseguiti al CapeTown World Cinema Festival), rendendo palese la costruzione cristologica e socialmente convenzionalizzante che informa questo racconto sulla borghesizzazione catartica dei neri africani, che si articola appunto tra tradimento di classe e sacrificio iniziale del padre, per continuare con l’evangelizzazione economica praticata misericordiosamente dal figlio : tanto é che non manca neanche la figura del ladrone crocifisso come simbolo del riscatto estremo dell’attentatore all’ordine economico occidentale.
La magia ed il tribalismo sono invece marginalizzati dalla condanna o dal sospetto come espressioni di un passato animista,che per esempio Idrissa Ouédragogo in La colère des dieux rivendica come forma di opposizione radicale al male più intimo dell’uomo come alla dominazione colonialista, mentre il giovane cineasta sudafricano,(appena ventitre anni), cerca di seppellire all’ultimo livello della miniera, facendo coincidere la libertà con lo sfruttamento sostenibile del territorio e la serenità con il silenzio delle voci degli spiriti.
La stessa disposizione politica di questo film passa per un compendio retorico perfettamente filologico disteso tra la scuola documentaristica inglese di Grierson e la produzione sovietica avanguardistica , comprendendo montaggi paralleli tra la lotta sotterranea degli uomini ed i suoi esiti già visibili in superficie con il volantinaggio della infermiera ,(cosq sqrebbero le rivoluzioni senza belle infermiere ?), o l’utilizzo di rallentamenti unito ad una poetica della semplificazione drammatica nei dettagli o ancora nella descrizione esatta dell’azione lavorativa e del suo apparato tecnologico ; ma senza formarsi in modo interamente ideologico bensí accogliendo una necessità narrativa concentrata nella descrizione psicologica dei personaggi, a volte quasi confusa con la semplice prossimità della ripresa, ma sempre dominata dalla tonalità claustrofobica della carcerazione formata sulla composizione metonimica della sua qualità : i corpi, impolverati, sudati o feriti riempiono lo schermo, con poche eccezioni, piegandosi nell’urgenza della liberazione, tremando spinti dai motori dei martelli pneumatici, in un affascinante teatro anatomico.
Nella vicinanza peró vengono anche minimizzate le differenze con il personalebianco della miniera che perde ogni carattere vessatorio per apparire piuttosto come depositario di un sapere tecnico sollecito umanamente nei confronti degli operai, altrettanto compreso nel mercato quanto gli altri lavoratori e fraternamente coinvolto in una competizione che vede semplicemente moltiplicare gli attori, mentre ancora in profondità la qualità si fa soggetto ed idemoni fissano gli operai mentre le pareti si stringono sul loro petto ed i crolli si fanno cupi avvertimenti di bestie che il cinema occidentale ha dominato solo nell’alterità del cinema dell’orrore.
E’ la stessa narratività del film quindi a ricavare la propria forma in una tradizione drammaturgica interamente occidentale ed accademica senza forzarne gli esiti ad un idioletto artificiosamente autoctono, ma anche senza innescare quei fenomeni rivitalizzanti che vengono comunemente riconosciuti alle cinematografie più perifieriche, suggerendo infondo una grande matuirità linguistica di Norman Maake, espressa a fondo anche nel fraseggio ritmico della ripresa, ma forse poco riconoscibile o personale : un po’ come un processo di democratizzazione condotto sull’adeguamento piuttosto che sullo slancio rivoluzionario.
Ruggero Lancia